Da “la rucola” notizie da
Macerata
La storia del salato
Il
sostantivo “salato” (in dialetto marchigiano: lo
salàto) è un termine che fa spesso riferimento agli insaccati di carni
suine, e
non al più ampio concetto di prodotto trattato con il sale. I primi abitatori
della terra, spinti dalla fame, guida-i dall’istinto e dall’osservazione della
natura, hanno dovuto sperimentare il principio leonardesco “la scienza è figlia
dell’esperienza”. Iniziarono a cibarsi di erbe, frutta e semi per passare poi
alla cattura degli animali. Dopo venne la scoperta del fuoco anche per la
cottura degli alimenti. Le esigenze crescevano: da qui la nascita della
dispensa, del magazzino e l’importanza della “sussistenza” (bisogno di alimenti
a portata di mano) come riserva alimentare, per gli spostamenti, le battute di
caccia e le guerre contro popoli e tribù più o meno lontane. Certamente il
primo metodo di conservazione delle derrate è stato l’essiccazione, metodologia
tuttora in auge: le razioni K degli eserciti, i cibi liofilizzati e disidratati
nei super mercati e nelle astronavi (niente di nuovo!). La scoperta del sale
per conservare gli alimenti carnei fu successiva. Forse dopo vari tentativi o
come effetto secondario al suo utilizzo per aumentare la sapidità delle carni
fresche hanno verificato che il sale assorbe l’acqua
libera rendendola
indisponibile alla crescita dei germi che causano la putrefazione. Nelle
vallate alpine e nelle nazioni del nord Europa si affermò la tecnica
dell’affumicamento di prodotti leggermente salati (data la penuria di sale):
vedi per tutti lo speck.
Allevamento
dei suini
Alcuni
sostengono che l’allevamento dei suini abbia avuto origine in Asia; altri che
l’addomesticamento sia avvenuto in Occidente, dalle isole britanniche al
mediterraneo, con ritrovamenti archeologici in Turchia databili 8.000 a.C.
circa. In Cina da millenni pure il suino è curato con l’ago-puntura: i punti da
trattare sono meno numerosi di quelli per l’uomo e per le altre specie animali,
ma con metodologia e trattamenti analoghi. Forse più semplicemente i vari
popoli tentarono l’allevamento incrociando suini presenti nei loro territori.
Il maiale è un animale onnivoro, generalmente non aggressivo, sprovvisto di
efficienti mezzi di offesa, non competitore alimentare con l’uomo, spinto ad
avvicinarsi agli insediamenti umani dove poteva disporre di abbondanti avanzi
alimentari ed essere difeso dalle aggressioni dei grandi carnivori. Se il
maiale non fu il primo amico dell’uomo, fu certamente il secondo. Nacquero così
varie tipologie di suini domestici che furono continuamente rinsanguati; erano
splendidi meticci da cui vennero selezionate le numerose razze che abbiamo
potuto osservare fino alla scomparsa della piccola azienda agricola.
Insaccati
nell’antichità
Gli
egiziani certamente conoscevano gli insaccati, come testimonia una iscrizione
sulla tomba di Ramsete III (1166 a.C.). Nell’Odissea (VII-VIII secolo a.C.)
abbiamo la prima descrizione di un insaccato realizzato con grasso e sangue;
Aristofane (450 – 388 a.C. circa), nelle sue commedie, li cita più volte. Gli
scrittori romani parlano spesso di pranzi luculliani (Saliari) a base di
prodotti strani e ricercati e poco di un mangiare quotidiano e popolare. Marco
Porcio Catone (famiglia di allevatori di maiali, nei dintorni di Rieti), di
vaste conoscenze, un po’ progressista e un po’ retrogrado, nel De re rusticapreconizza l’uso
del cavolo (considerare l’attuale rivalutazione!) per ogni sorta di malattie
sia umane che animali; raccomanda l’applicazione di una mistura costituita dal
sedimento di olio d’oliva, estratto di lupino e buon vino per il trattamento
della scabbia delle pecore. L’ammirazione e il conseguente odio per la
superiorità della civiltà, della cultura e dei medici greci lo spinsero perfino
a scrivere al figlio “ti proibisco di avere a che fare con loro”: lo preferiva
morto piuttosto che guarito dai medici greci. La paura per il rammollimento del
costume, oltre a indirizzare l’attenzione dei romani verso Cartagine, lo spinge
a preconizzare una zootecnia e un’agricoltura primordiale: non dissimile dai
principi ai quali teoricamente s’ispira l’agricoltura biologica. Nel De Agricolturaparla di tecniche
di conservazione della carne suina (sale e asciugamento) molto simili a quelle
odierne, fa riferimento al prosciutto crudo; i romani gli dedicarono una strada
nel mercato: via Panisperna (da Panis/pane e perna/prosciutto). Sarà stato per
questo che i ragazzi di via Panisperna..?! I romani non disdegnavano nemmeno il farcimen myrtatum, un insaccato
a base di carne suina pestata in un mortaio, insaporita con il mirto e cotta:
l’antenato della nostra mortadella la cui produzione sarà codificata con un
bando dal Cardinale Farnese (Bologna 1661).
Storia
del salato nelle Marche
Gli
italiani, in particolare i marchigiani, non vogliono sa-pere e ricordare di
essere il frutto di millenni di esperienze… anche
per lo salàto. Per chi non lo
sa o non lo ricorda facciamo cenno alle Tavole
Igubine e alla la Scuola di
Preci. Delle Tavole eugubine, tavole igubine, (Tabulæ Iguvinæ) non si conosce
il luogo di rinvenimento, secondo molti furono trovate nei pressi del tempio di
Giove tra Scheggia e Cantiano (Pesaro): ma anche Gubbio ha avuto stretti
rapporti con le Marche. Sono sette tavole bronzee custodite a Gubbio; dettano,
ai sacerdoti di Giove, le modalità del rito della lustrazione dell’esercito
(armilustrium dei Salii, per i romani 19 ottobre) e della purificazione
(protezione) della città. Cinque sono scritte, anche sul retro, in totale
dodici facciate in alfabeto piceno italico (vedi le legge delle 12 tavole e
l’importanza del 3); databili III – II secolo a.C. Il testo è da considerarsi
più antico, forse I millennio a.C., comunque antecedente la morte di Anco
Marzio. La dotta “Traduzione delle tavole igubine” (prof. Giovanni Rocchi ed.
PML), ci riporta in un mondo arcaico che ancora sopravvive. Tralasciati i
precetti della vestizione dell’officiante e il vaticinio da lancio degli
uccelli, ci fa meraviglia la descrizione delle operazioni, della scelta,
cattura, sacrificio degli animali. Interessantissime le varie fasi della
macellazione: “Si preghi in
silenzio sulle carni e sui prodotti della terra (compreso la farina farro rostita)…
dopo il rito dell’Offertorio si assicuri che si può dare la santa offerta… si
torni alla Fortezza e si preghi sulle budella e sui macinati. Quindi si mettano
da parte le scodelle da consacrazione, si producano i vari insaccati”. Sì, vari insaccati perché in
altre parti si legge che potevano essere bianchi e neri, salcicce, ciauscoli e
salami, Erano realizzati con le carni di varie specie animali (molossi
compresi). Durante il rito e alla fine di esso, c’erano assaggi e mangiate
pantagrueliche di alimenti cotti. Il rito dei sacrifici si è protratto nel
tempo presso i romani e per quanto attiene alla norcineria fino quasi ai nostri
giorni.
Scuola
di Preci
San Spes,
nel 470, fonda l’abbazia di Sant’Eutizio, polo religioso e culturale a Preci
(Umbria), poco distante da Visso (Marche). L’abbazia ebbe molte donazioni,
diritti feudali fino ad Ascoli e Teramo, possedeva una Salina sull’Adriatico,
un porto alla foce del Tronto, una ricca biblioteca con testi di medicina
greco-romani. Dotti religiosi, conoscitori di arti
mediche orientali e farmacologia (virtù curative delle erbe), paleografi e
miniaturisti, produssero numerosi codici miniati, famosi soprattutto per la Scuola medico-chirurgica:
oculistica (cateratte) e urologia (malattia della pietra, calcoli), gestivano anche il Lebbrosario San
Lazzaro al Valloncello. Nel 1215 il 4° concilio ecumenico lateranense con la
Bolla “Ecclesia Abhorret a
Sanguine” si professa
contraria al sangue, tra l’atro prescrive “i sud-diaconi, diaconi, sacerdoti
non esercitino neppure l’arte della chirurgia che comporta ustioni o
incisioni“. I religiosi
preciani abbandonano la chirurgia, che sarà a lungo con-siderata un’arte medica
inferiore, e trasmettono le loro conoscenze agli abitanti dei villaggi
circostanti. Ai preciani insegnano l’oculistica e l’urologia, a quelli di
Cerreto la coltivazione delle erbe medicinali e l’uso degli estratti, a quelli
di Norcia la chirurgia di base (medici empirici norcini), cura dei
suini, macellazione e produzione di alimenti conservati; conoscenze e pratiche
che ovviamente contagiano l’ascolano, il maceratese e tutte le Marche. I
farmacisti cerretani spopolavano nelle fiere paesane poi cominciarono a
decantare i loro improbabili elisir (di giovinezza, amore ecc.) e ora nel
vecchio vocabolario del Tommaseo leggiamo: ciarlatano = cerretano,
saltambanco. I chirurghi preciani furono a lungo ricercati in tutta Europa da
re e regine, invitati in numerose università. La fama dei norcini nel campo
della produzione di derrate alimentari da suini dura ancora; il termine norcino
codifica un’intera categoria di operatori. Tra il medioevo e il rinascimento,
il norcino incrementa la considerazione sociale e si dedica anche al
mecenatismo e all’arte. Si istituiscono corporazioni e confraternite: a
Bologna, Firenze, Roma. Il lavoro era stagionale. I macellatori Umbro –
marchigiani lasciavano la loro contrada per tutta la stagione invernale per poi
tornare nelle piccole imprese rurali. Tecniche e dosaggi erano tramandati
oralmente e con libere interpretazioni dei singoli artisti che operavano su
animali diversi per razza, peso e tecniche di alimentazione. L’asciugamento e
la stagionatura dei vari insaccati avvenivano in cucine e cantine dalle più
svariate condizioni di umidità e temperatura. In seguito, nelle nostre vallate
erano attivi vari macellatori che operavano in zone più ristrette. Per l’uso di
“fare la pista” a cavallo delle feste natalizie e in prossimità del carnevale
(per la ricchezza della tavola si usava dire “le feste principali sono tre: la
santa Pasqua, il santo Natale e il santissimo carnevavale). Venivano
“sacrificati” vecchie scrofe o suini maturi e grassi (250/300 chili, “quattro dita
di grasso”); il peso inferiore era considerato “una disgrazia” e segno di
“miseria”. Gli insaccati erano preparati solo con prodotti e spezie naturali
senza aggiunta, coloranti, conservanti e aromatizzanti sintetici (anche se
consentiti).
Gli
anni nostri
Negli ultimi
anni la festa della pista nelle nostre campagne è purtroppo scomparsa, in
seguito all’inurbamento delle popolazioni, all’abbandono degli insediamenti
agricoli, agli scarsissimi guadagni dalla piccola zootecnia, alla forse
eccessiva attenzione ai peccati veniali dei piccoli agricoltori: multe e
denunce per non aver usato la pistola proiettile captivo o lo storditore
elettrico (ad islamici ed ebrei è consentito). L’eredità dei vecchi norcini è
passata al mondo dell’industria alimentare che lavora tutto l’anno, animali
uniformi (stessa razza, non molto maturi, dal peso massimo di 160 Kg, con poco
grasso). Grazie alla disponibilità dei frigoriferi e delle celle di
stagionatura a temperature, umidità e ventilazioni controllate, la quantità di
sale è diminuita dai 33 gr/kg (numero magico e con riferimenti religiosi). Non
ci entusiasma l’omologazione dei prodotti, disponibili in ogni stazione, con
scarsa stagionatura, con il saporefelpato, tutti uguali anche
nell’aspetto; ci sogniamo la lonza di scrofe e il prosciutto di 25 Kg
massaggiato a mano su un reticolato di canne, messo ad asciugare in cucina,
affumicato nella cappa del camino e stagionato 2 anni. Non ci consola disporre
di esagerate quantità di speck del Tirolo (dove i maiali sono abbastanza rari),
di prosciutto di Parma (almeno alcuni suini vengono dalle Marche) o del
ciauscolo igp (che può essere costruito con suini di genealogie nordiche e con
soggetti esteri). Perché non si dovrebbe dire speck affumicato in…, prosciutto
stagionato a…, ciabuscolo insaccato nelle… Se fosse successo nel secolo
ventesimo, avremmo subito pensato al grande Trilussa:
Se vuoi l’ammirazione degli amichi
non je fa mai capì quello che dichi.
Erano
altri tempi nei quali all’ombra del fascio alcuni facevano carriere e affari con
tutto:
La morale
Una
bella mattina er direttore
d’un
Giardino Zoologico
vestì
le scimmie, le scimmiette e li scimmioni
co’
li carzoni de tela cachì.
Una
vecchietta disse: “Meno male!
ché
armeno non vedremo certe scene…
er
direttore l’ha pensata bene:
se
vede che je preme la morale…”.
Una
scimmia, che stava nella gabbia
tutta
occupata a rosicà una mela,
intese
e disse: “Ammenoché nun ci-abbia
un
parente che fabbrica la tela…”.
Forza
Italia! Il fascio non fa più ombra! L’ulivo è stato abbattuto! La margherita
non è rinata! E la quercia s’è seccata!
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