sabato 19 novembre 2016

"LA STORIA DEL SALATO" del Dott. Nazzareno Graziosi

Da “la rucola” notizie da Macerata

 

La storia del salato

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di Nazzareno Graziosi
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Il sostantivo “salato” (in dialetto marchigiano: lo salàto) è un termine che fa spesso riferimento agli insaccati di carni suine, e non al più ampio concetto di prodotto trattato con il sale. I primi abitatori della terra, spinti dalla fame, guida-i dall’istinto e dall’osservazione della natura, hanno dovuto sperimentare il principio leonardesco “la scienza è figlia dell’esperienza”. Iniziarono a cibarsi di erbe, frutta e semi per passare poi alla cattura degli animali. Dopo venne la scoperta del fuoco anche per la cottura degli alimenti. Le esigenze crescevano: da qui la nascita della dispensa, del magazzino e l’importanza della “sussistenza” (bisogno di alimenti a portata di mano) come riserva alimentare, per gli spostamenti, le battute di caccia e le guerre contro popoli e tribù più o meno lontane. Certamente il primo metodo di conservazione delle derrate è stato l’essiccazione, metodologia tuttora in auge: le razioni K degli eserciti, i cibi liofilizzati e disidratati nei super mercati e nelle astronavi (niente di nuovo!). La scoperta del sale per conservare gli alimenti carnei fu successiva. Forse dopo vari tentativi o come effetto secondario al suo utilizzo per aumentare la sapidità delle carni fresche hanno verificato che il sale assorbe l’acqua libera rendendola indisponibile alla crescita dei germi che causano la putrefazione. Nelle vallate alpine e nelle nazioni del nord Europa si affermò la tecnica dell’affumicamento di prodotti leggermente salati (data la penuria di sale): vedi per tutti lo speck.

Allevamento dei suini
Alcuni sostengono che l’allevamento dei suini abbia avuto origine in Asia; altri che l’addomesticamento sia avvenuto in Occidente, dalle isole britanniche al mediterraneo, con ritrovamenti archeologici in Turchia databili 8.000 a.C. circa. In Cina da millenni pure il suino è curato con l’ago-puntura: i punti da trattare sono meno numerosi di quelli per l’uomo e per le altre specie animali, ma con metodologia e trattamenti analoghi. Forse più semplicemente i vari popoli tentarono l’allevamento incrociando suini presenti nei loro territori. Il maiale è un animale onnivoro, generalmente non aggressivo, sprovvisto di efficienti mezzi di offesa, non competitore alimentare con l’uomo, spinto ad avvicinarsi agli insediamenti umani dove poteva disporre di abbondanti avanzi alimentari ed essere difeso dalle aggressioni dei grandi carnivori. Se il maiale non fu il primo amico dell’uomo, fu certamente il secondo. Nacquero così varie tipologie di suini domestici che furono continuamente rinsanguati; erano splendidi meticci da cui vennero selezionate le numerose razze che abbiamo potuto osservare fino alla scomparsa della piccola azienda agricola.


Insaccati nell’antichità
Gli egiziani certamente conoscevano gli insaccati, come testimonia una iscrizione sulla tomba di Ramsete III (1166 a.C.). Nell’Odissea (VII-VIII secolo a.C.) abbiamo la prima descrizione di un insaccato realizzato con grasso e sangue; Aristofane (450 – 388 a.C. circa), nelle sue commedie, li cita più volte. Gli scrittori romani parlano spesso di pranzi luculliani (Saliari) a base di prodotti strani e ricercati e poco di un mangiare quotidiano e popolare. Marco Porcio Catone (famiglia di allevatori di maiali, nei dintorni di Rieti), di vaste conoscenze, un po’ progressista e un po’ retrogrado, nel De re rusticapreconizza l’uso del cavolo (considerare l’attuale rivalutazione!) per ogni sorta di malattie sia umane che animali; raccomanda l’applicazione di una mistura costituita dal sedimento di olio d’oliva, estratto di lupino e buon vino per il trattamento della scabbia delle pecore. L’ammirazione e il conseguente odio per la superiorità della civiltà, della cultura e dei medici greci lo spinsero perfino a scrivere al figlio “ti proibisco di avere a che fare con loro”: lo preferiva morto piuttosto che guarito dai medici greci. La paura per il rammollimento del costume, oltre a indirizzare l’attenzione dei romani verso Cartagine, lo spinge a preconizzare una zootecnia e un’agricoltura primordiale: non dissimile dai principi ai quali teoricamente s’ispira l’agricoltura biologica. Nel De Agricolturaparla di tecniche di conservazione della carne suina (sale e asciugamento) molto simili a quelle odierne, fa riferimento al prosciutto crudo; i romani gli dedicarono una strada nel mercato: via Panisperna (da Panis/pane e perna/prosciutto). Sarà stato per questo che i ragazzi di via Panisperna..?! I romani non disdegnavano nemmeno il farcimen myrtatum, un insaccato a base di carne suina pestata in un mortaio, insaporita con il mirto e cotta: l’antenato della nostra mortadella la cui produzione sarà codificata con un bando dal Cardinale Farnese (Bologna 1661).

Storia del salato nelle Marche
Gli italiani, in particolare i marchigiani, non vogliono sa-pere e ricordare di essere il frutto di millenni di esperienze… anche per lo salàto. Per chi non lo sa o non lo ricorda facciamo cenno alle Tavole Igubine e alla la Scuola di Preci. Delle Tavole eugubine, tavole igubine, (Tabulæ Iguvinæ) non si conosce il luogo di rinvenimento, secondo molti furono trovate nei pressi del tempio di Giove tra Scheggia e Cantiano (Pesaro): ma anche Gubbio ha avuto stretti rapporti con le Marche. Sono sette tavole bronzee custodite a Gubbio; dettano, ai sacerdoti di Giove, le modalità del rito della lustrazione dell’esercito (armilustrium dei Salii, per i romani 19 ottobre) e della purificazione (protezione) della città. Cinque sono scritte, anche sul retro, in totale dodici facciate in alfabeto piceno italico (vedi le legge delle 12 tavole e l’importanza del 3); databili III – II secolo a.C. Il testo è da considerarsi più antico, forse I millennio a.C., comunque antecedente la morte di Anco Marzio. La dotta “Traduzione delle tavole igubine” (prof. Giovanni Rocchi ed. PML), ci riporta in un mondo arcaico che ancora sopravvive. Tralasciati i precetti della vestizione dell’officiante e il vaticinio da lancio degli uccelli, ci fa meraviglia la descrizione delle operazioni, della scelta, cattura, sacrificio degli animali. Interessantissime le varie fasi della macellazione: “Si preghi in silenzio sulle carni e sui prodotti della terra (compreso la farina farro rostita)… dopo il rito dell’Offertorio si assicuri che si può dare la santa offerta… si torni alla Fortezza e si preghi sulle budella e sui macinati. Quindi si mettano da parte le scodelle da consacrazione, si producano i vari insaccati”. Sì, vari insaccati perché in altre parti si legge che potevano essere bianchi e neri, salcicce, ciauscoli e salami, Erano realizzati con le carni di varie specie animali (molossi compresi). Durante il rito e alla fine di esso, c’erano assaggi e mangiate pantagrueliche di alimenti cotti. Il rito dei sacrifici si è protratto nel tempo presso i romani e per quanto attiene alla norcineria fino quasi ai nostri giorni.

Scuola di Preci
San Spes, nel 470, fonda l’abbazia di Sant’Eutizio, polo religioso e culturale a Preci (Umbria), poco distante da Visso (Marche). L’abbazia ebbe molte donazioni, diritti feudali fino ad Ascoli e Teramo, possedeva una Salina sull’Adriatico, un porto alla foce del Tronto, una ricca biblioteca con testi di medicina greco-romani. Dotti religiosi, conoscitori di arti mediche orientali e farmacologia (virtù curative delle erbe), paleografi e miniaturisti, produssero numerosi codici miniati, famosi soprattutto per la Scuola medico-chirurgica: oculistica (cateratte) e urologia (malattia della pietra, calcoli), gestivano anche il Lebbrosario San Lazzaro al Valloncello. Nel 1215 il 4° concilio ecumenico lateranense con la Bolla “Ecclesia Abhorret a Sanguine” si professa contraria al sangue, tra l’atro prescrive “i sud-diaconi, diaconi, sacerdoti non esercitino neppure l’arte della chirurgia che comporta ustioni o incisioni“. I religiosi preciani abbandonano la chirurgia, che sarà a lungo con-siderata un’arte medica inferiore, e trasmettono le loro conoscenze agli abitanti dei villaggi circostanti. Ai preciani insegnano l’oculistica e l’urologia, a quelli di Cerreto la coltivazione delle erbe medicinali e l’uso degli estratti, a quelli di Norcia la chirurgia di base (medici empirici norcini), cura dei suini, macellazione e produzione di alimenti conservati; conoscenze e pratiche che ovviamente contagiano l’ascolano, il maceratese e tutte le Marche. I farmacisti cerretani spopolavano nelle fiere paesane poi cominciarono a decantare i loro improbabili elisir (di giovinezza, amore ecc.) e ora nel vecchio vocabolario del Tommaseo leggiamo: ciarlatano =  cerretano, saltambanco. I chirurghi preciani furono a lungo ricercati in tutta Europa da re e regine, invitati in numerose università. La fama dei norcini nel campo della produzione di derrate alimentari da suini dura ancora; il termine norcino codifica un’intera categoria di operatori. Tra il medioevo e il rinascimento, il norcino incrementa la considerazione sociale e si dedica anche al mecenatismo e all’arte. Si istituiscono corporazioni e confraternite: a Bologna, Firenze, Roma. Il lavoro era stagionale. I macellatori Umbro – marchigiani lasciavano la loro contrada per tutta la stagione invernale per poi tornare nelle piccole imprese rurali. Tecniche e dosaggi erano tramandati oralmente e con libere interpretazioni dei singoli artisti che operavano su animali diversi per razza, peso e tecniche di alimentazione. L’asciugamento e la stagionatura dei vari insaccati avvenivano in cucine e cantine dalle più svariate condizioni di umidità e temperatura. In seguito, nelle nostre vallate erano attivi vari macellatori che operavano in zone più ristrette. Per l’uso di “fare la pista” a cavallo delle feste natalizie e in prossimità del carnevale (per la ricchezza della tavola si usava dire “le feste principali sono tre: la santa Pasqua, il santo Natale e il santissimo carnevavale). Venivano “sacrificati” vecchie scrofe o suini maturi e grassi (250/300 chili, “quattro dita di grasso”); il peso inferiore era considerato “una disgrazia” e segno di “miseria”. Gli insaccati erano preparati solo con prodotti e spezie naturali senza aggiunta, coloranti, conservanti e aromatizzanti sintetici (anche se consentiti).

Gli anni nostri
Negli ultimi anni la festa della pista nelle nostre campagne è purtroppo scomparsa, in seguito all’inurbamento delle popolazioni, all’abbandono degli insediamenti agricoli, agli scarsissimi guadagni dalla piccola zootecnia, alla forse eccessiva attenzione ai peccati veniali dei piccoli agricoltori: multe e denunce per non aver usato la pistola proiettile captivo o lo storditore elettrico (ad islamici ed ebrei è consentito). L’eredità dei vecchi norcini è passata al mondo dell’industria alimentare che lavora tutto l’anno, animali uniformi (stessa razza, non molto maturi, dal peso massimo di 160 Kg, con poco grasso). Grazie alla disponibilità dei frigoriferi e delle celle di stagionatura a temperature, umidità e ventilazioni controllate, la quantità di sale è diminuita dai 33 gr/kg (numero magico e con riferimenti religiosi). Non ci entusiasma l’omologazione dei prodotti, disponibili in ogni stazione, con scarsa stagionatura, con il saporefelpato, tutti uguali anche nell’aspetto; ci sogniamo la lonza di scrofe e il prosciutto di 25 Kg massaggiato a mano su un reticolato di canne, messo ad asciugare in cucina, affumicato nella cappa del camino e stagionato 2 anni. Non ci consola disporre di esagerate quantità di speck del Tirolo (dove i maiali sono abbastanza rari), di prosciutto di Parma (almeno alcuni suini vengono dalle Marche) o del ciauscolo igp (che può essere costruito con suini di genealogie nordiche e con soggetti esteri). Perché non si dovrebbe dire speck affumicato in…, prosciutto stagionato a…, ciabuscolo insaccato nelle… Se fosse successo nel secolo ventesimo, avremmo subito pensato al grande Trilussa:

Se vuoi l’ammirazione degli amichi
non je fa mai capì quello che dichi.

Erano altri tempi nei quali all’ombra del fascio alcuni facevano carriere e affari con tutto:

La morale


Una bella mattina er direttore
d’un Giardino Zoologico
vestì le scimmie, le scimmiette e li scimmioni
co’ li carzoni de tela cachì.
Una vecchietta disse: “Meno male!
ché armeno non vedremo certe scene…
er direttore l’ha pensata bene:
se vede che je preme la morale…”.
Una scimmia, che stava nella gabbia
tutta occupata a rosicà una mela,
intese e disse: “Ammenoché nun ci-abbia
un parente che fabbrica la tela…”.

Forza Italia! Il fascio non fa più ombra! L’ulivo è stato abbattuto! La margherita non è rinata! E la quercia s’è seccata!


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