domenica 15 marzo 2015

BREVE APPENDICE STORICA SULLA VAL DI CHIENTI NELL'ALTO MEDIOEVO - Parte quarta


                                                 BREVE APPENDICE STORICA
                                   SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO
                                           (con articoli apparsi sulla stampa locale)



Ad utilità dei lettori riproduciamo quattro articoli apparsi sul periodico “Montolmo e Dintorni”, edito a Corridonia, redatti dal Prof. Giovanni Carnevale con la collaborazione dell’Arch. Riccardo Garbuglia.

       SOTTO L’URTO DEGLI ARABI, I PAPI SI RIFUGIANO IN VAL DI CHIENTI
  (L’articolo è stato ripreso dal periodico “Montolmo e Dintorni” di Corridonia: N°8 marzo 2012)

Dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, nel 476, le popolazioni germaniche varcarono la tradizionale frontiera del Reno occupando le antiche province romane della Gallia e della Spagna. L’Italia vide l’arrivo di popolazioni barbariche come i Goti di Ravenna, ma i barbari non si radicarono in Italia se non coi Longobardi, che fecero di Pavia la capitale del loro regno.  Il regno longobardo era suddiviso in ducati, che arrivarono a controllare tutto il nord Italia e altre parti della penisola; nell’Italia centrale spiccava il Ducato di Spoleto, in quella meridionale Benevento.  L’impero romano d’oriente, con capitale Bisanzio, mantenne il controllo della fascia adriatica, delle coste meridionali e della Sicilia.  La situazione si complicò per Bisanzio quando dovette fronteggiare l’invasione degli Arabi, che conquistarono non solo le province del medio oriente e dell’Africa, ma anche, all’inizio del secolo VIII, l’intera Spagna.  La conquista della Spagna provocò per l’Europa il confronto diretto con l’Islam e creò i presupposti perché il Piceno, e in particolare la Val di Chienti, acquistassero una importantissima posizione politico-militare nell’incipiente alto medioevo.  Le recenti ricerche hanno evidenziato lo stabilirsi dei Franchi nel Piceno e le loro annuali guerre con Carlo Martello in Gallia contro gli Arabi che ne tentavano la conquista.  L’alleanza dei Franchi piceni col papato portò all’abolizione della dinastia dei Merovingi in Gallia e alla nascita in Italia della nuova dinastia carolingia con Pipino, consacrato re dei Franchi nel 753 da Papa Stefano II in Saint Denis, oggi San Ginesio, e con Carlo Magno, unto imperatore a Roma la notte di Natale dell’800.  Carlo Magno moriva nel gennaio dell’814 e sarà il caso che, per il 1200° anniversario della sua morte, la cultura locale ricordi in qualche modo l’evento.
Con suo figlio Ludovico il Pio le difficoltà con gli Arabi si fecero sentire anche in Italia.  Claudio, vescovo di Torino, oggi Pieve Torina, ci dice che il sovrano lo aveva incaricato, all’arrivo di ogni primavera, di fronteggiare improvvisi sbarchi notturni di Arabi lungo le coste adriatiche.  Sulle coste laziali la situazione era ancor più pericolosa; il mar Tirreno era infatti totalmente sotto il controllo degli Arabi, che stavano anche completando la conquista della Sicilia.  La sua occupazione fu ultimata nell’840.  In quello stesso anno moriva l’imperatore Ludovico il Pio e gli Arabi sbarcavano anche sulla penisola, occupando Taranto e Bari.
Già prima di questi eventi, Gregorio IV, Papa dall’827, aveva abbandonato Roma e trovato rifugio in Val di Chienti, ove la Santa Sede possedeva beni territoriali dall’epoca dei primi sovrani carolingi, le cosiddette Domus Cultae.  È più la logica concatenazione degli eventi che i superstiti documenti a chiarire il trasferimento della sede del papato da Roma in Val di Chienti, nei pressi dell’Aquisgrana carolingia.  La storiografia arranca nel buio: i Papi lasciavano una Urbs o Roma e ritrovavano un’altra Urbs e un’altra Roma (oggi Urbisaglia) nel Piceno, allora Francia.  Comunque Papa Gregorio IV, prima di morire nell’844, si era preoccupato di costruire una fortezza a difesa del locale portus (oggi Civitanova) che gli storiografi hanno identificato con Ostia, il ché non ha senso perché gli Arabi erano in grado di sbarcare senza trovare ostacoli di sorta lungo tutta la costa laziale, indifesa.  Nell’846 gli Arabi saccheggiarono Ancona, poi attaccarono la fortezza di Portus, decisi a  conquistare Aquisgrana, ma furono respinti sul territorio della riva destra del Chienti e ricacciati.  Non andò però esente dal saccheggio lungo la riva destra del Chienti la ricca chiesa carolingia di San Pietro, nell’odierna Corridonia.  Per fronteggiare futuri pericoli, sulla riva destra del Chienti fu costruita una serie di fortificazioni da Papa Leone IV (847 - 855), che da lui presero nome di Civitas Leonina.  Fortificata con possenti mura la zona di San Pietro, questa chiesa, tuttora esistente ma totalmente ricostruita nel 1700, divenne la cattedrale dei Papi in esilio nel Piceno.  Era fronteggiata da uno splendido portico chiamato anche Paradisus, dove trovarono sepoltura Papi e Imperatori nell’alto medioevo.  Viene citata anche nel XIII fioretto di San Francesco che, venuto a Roma, in Francia, entrò in quella chiesa.  Naturalmente il San Pietro Piceno sui documenti, affiancato ai termini di Francia Picena, Urbs o Roma Picena, ha contribuito a far credere che i Papi nell’alto medioevo rimasero sempre a Roma senza bisogno di trovare rifugio in Val di Chienti.
Altri elementi ci spingono a pensare che il Papato effettivamente risiedette per due o tre secoli in Val di Chienti.  L’antica splendida cappella palatina costruita da Carlo Magno, al cui ingresso il sovrano fu sepolto e vi restò finché il Barbarossa nel 1166 non ne portò i resti ad Aachen, estintasi la dinastia dei Carolingi, fu assunta dai Papi come propria sede pontificia e non si chiamò più cappella ma basilica lateranense.  Nell’817, subito dopo la morte di Carlo Magno, si era tenuta un’assemblea di ecclesiastici presieduta da Benedetto di Aniane per estendere la regola di San Benedetto a tutti i monasteri di occidente.  È documentato che questo sinodo fu tenuto ad Aquisgrana nell’ala del Palatium di Carlo Magno denominata Laterano.  La storiografia ha immaginato che i Papi e il Laterano non si fossero mai spostati da Roma, quando invece questa era ridotta a un cumulo di rovine.  Il Laterano tornò a Roma quando vi tornarono i Papi, verso il secolo XIII, in una data non ben precisabile.

BREVE APPENDICE STORICA SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO - Parte seconda


                                                       BREVE APPENDICE STORICA
                                     SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO
                                                  (con articoli apparsi sulla stampa locale)



Ad utilità dei lettori riproduciamo quattro articoli apparsi sul periodico “Montolmo e Dintorni”, edito a Corridonia, redatti dal Prof. Giovanni Carnevale con la collaborazione dell’Arch. Riccardo Garbuglia.

                                                           LA “FRANCIA” PICENA
                                                E LE SUE ESPANSIONI PERIFERICHE
(L’articolo è stato ripreso dal periodico “Montolmo e Dintorni” di Corridonia: N°7 dicembre 2011)

Nel 715, per sfuggire all’invasione araba, arrivarono nel Piceno i profughi franchi dall’Aquitania, la regione compresa tra i Pirenei e l’oceano atlantico.  Si erano interessati, per accoglierli, oltre al Papa, l’abate di Farfa Tommaso di Morienna e il Duca longobardo di Spoleto Faroaldo.  Il Duca aveva predisposto la donazione, in favore dei profughi, di terre che lui considerava di sua spettanza ma che erano ormai desertificate per eventi bellici e per il sopravvenire di pestilenze, che nell’antichità colpivano quasi ogni generazione.  Sappiamo che queste terre erano dislocate a ridosso di due antiche strade romane, la Salaria gallica, che percorreva tutto il Piceno lungo il tracciato pedemontano che oggi corrisponde alla statale 78, e che a Roccafluvione attraversava il Tronto su un ponte romano i cui resti esistono ancora e si innestava sulla Salaria consolare, la seconda strada appunto, che, attraverso la Sabina, raggiungeva Roma, sede del Papato.
Si noti che nell’Italia centrosettentrionale esistevano altre due città che svolgevano funzione di capitali: Ravenna, capitale dell’Esarcato bizantino, che controllava anche la Decapoli, cioè il territorio che corrisponde oggi alle Marche settentrionali, e, sul Ticino, Pavia, capitale del regno longobardo.  Questo ci fa comprendere che l’Italia centrosettentrionale era praticamente suddivisa in tre diverse entità politiche: un ampio territorio longobardo che comprendeva la pianura padana, quasi tutta l’Umbria e parte della Toscana; l’Esarcato, che controllava gli antichi municipi romani al di qua e al di là dell’adriatico settentrionale, teoricamente dipendenti da Bisanzio ma in pratica ormai autonomi e già in decadenza e il territorio del Papato, a cui restava il controllo del Lazio e delle zone meridionali dell’Umbria e della Toscana.
Il Piceno, tra l’Adriatico e i Sibillini, era praticamente desertificato.  Durante il secolo VII, quando i Longobardi non si erano ancora convertiti al cristianesimo, era pericoloso portarsi da Ravenna a Roma e viceversa percorrendo l’antica Flaminia e perciò attraversando l’Umbria.  La Flaminia da Ravenna era percorsa fino a Scheggia, dopodiché si deviava nella valle del Sentino e ci si andava a ricollegare alla Salaria gallica in territorio Piceno.  Percorsa per tutta la sua lunghezza, si attraversava il Tronto a Roccafluvione e, sulla Salaria consolare, era facile raggiungere Roma.  Si era creato perciò, per evitare il passaggio attraverso l’Umbria, una specie di corridoio che permetteva i collegamenti tra Ravenna e Roma senza attraversare territori controllati dai longobardi di Spoleto.  Naturalmente l’inimicizia tra romano-bizantini e longobardi si attenuò notevolmente quando i longobardi, ad opera della loro regina Teodolinda, passarono al cristianesimo.
Questo fa anche capire che l’accoglimento dei profughi franchi provenienti dall’Aquitania  aveva anche risvolti politici.  Si voleva ripopolare il Piceno e la Sabina, che erano rimasti territori di nessuno perché ai limiti di tutte e tre le grandi realtà politiche presenti nell’Italia centrale: la longobarda Spoleto, la bizantina Ravenna e Roma pontificia.  Si noti che i Franchi furono dislocati dall’abate di Farfa a piccoli gruppi nella Sabina lungo la Salaria consolare e nel Piceno lungo la Salaria gallica, da cui fu facile ai Franchi discendere lungo le valli del Potenza, del Chienti, del Tenna, dell’Ete e dell’Aso, per cui si ebbe un rapido ripopolamento di queste terre tanto che il territorio tra i Sibillini e l’Adriatico non fu  più chiamato Piceno, bensì “Francia”, perché ormai integralmente popolato da signori Franchi.
Un’ultima espansione franca si ebbe oltre Cancelli di Fabriano, cioè nell’Umbria della longobarda Spoleto, che continuò nei documenti ad essere chiamata Ducato longobardo: in realtà vi si infittirono nuovi insediamenti franchi i quali, spingendosi oltre Spoleto e oltre Acquasparta, raggiungevano l’Umbria meridionale nella zona di Terni, Orte e Amelia.
E’ molto importante notare come il dialetto maceratese, a quei tempi una vera e propria lingua volgare, copriva e copre ancora oggi la totalità dei territori appena nominati: il Piceno naturalmente, la Sabina attraversata dalla Salaria e l’Umbria spoletina, fino a essere presente in tutta l’Umbria meridionale.  Chi è esperto di dialetto maceratese sa che linguisticamente si sente quasi a casa sua non solo in tutto l’attuale Piceno ma anche in Sabina, fino all’abazia di Farfa, alle porte di Roma, ed anche in Umbria, nonostante che le Marche siano da essa separate dall’alta barriera dei monti Sibillini.  Teoricamente anche il toscano, sul territorio attraversato dalla Francigena, può essere considerato come una derivazione linguistica del popolo latino che conviveva in “Francia” coi franchi venuti d’oltralpe. Oltre questi confini ci sono solo una moltitudine di dialetti nell’Italia padana e già il maceratese non si sente a casa sua nell’anconetano, territorio pur vicinissimo. Questo si spiega perché Carlo Magno, per trentatre anni, partendo a maggio da Campomaggio, raggiungeva la Sassonia e in autunno rientrava in “Francia” deportando ogni volta nuclei di tribù sassoni, uomini, donne e bambini, che, crescendo, costituirono, al di là del Musone, la proverbiale serpe allevata in seno, tanto che furono poi i locali imperatori sassoni di Aquisgrana, Ottone primo, Ottone secondo e Ottone terzo, a impadronirsi dell’Impero, e a privare i Franchi di ogni locale potere, provocando forse il rientro in massa di molti feudatari franchi in Gallia, loro patria d’origine, che verso il mille assorbì, detenendo ancora oggi, il nome di Francia.
Come si vede, per i Franchi fu estremamente importante riattivare strade romane che permettessero i collegamenti fra i vari nuclei franchi d’Italia e d’oltralpe. Per questo nacque già con Carlo Martello, capostipite dei Carolingi, un’altra importantissima strada che, ripercorrendo anch’essa i tracciati di strade consolari, partendo dall’Urbs, o Roma - oggi Urbisaglia - attraverso Cancelli, Spoleto e Acquasparta, raggiungeva Orte nella valle del Tevere e proseguiva verso nord valicando i passi della Cisa e del Gran San Bernardo per raggiungere la Gallia e la Renania germanica.  Questa importantissima arteria stradale prese il nome di Francigena perché, fino all’epoca di Pipino, padre di Carlo Magno, attraverso di essa veniva stabilito il collegamento tra i Franche d’oltralpe e quelli d’Italia.  All’epoca di Carlo Magno prese poi importanza anche un’altra strada, la Romea, che partendo sempre dall’Urbs, o Roma picena, raggiungeva la Sassonia oltrepassando il Brennero.

BREVE APPENDICE STORICA SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO - Parte prima


                                                        BREVE APPENDICE STORICA
                                    SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO
                                                   (con articoli apparsi sulla stampa locale)



Riproduciamo quattro articoli apparsi sul periodico “Montolmo e Dintorni”, edito a Corridonia, redatti dal Prof. Giovanni Carnevale con la collaborazione dell’Arch. Riccardo Garbuglia.


                         L’INCREDIBILE ASCESA DELLA DINASTIA CAROLINGIA
(L’articolo è stato ripreso dal periodico “Montolmo e Dintorni” di Corridonia: N°9 dicembre 2012)

Carlo Martello, il nonno di Carlo Magno, non era un re, ma, stabilitosi in Italia dal 716, messosi a capo dei locali Franchi, profughi dall’Aquitania, per tutto il resto della vita fece la spola tra l’Italia e la Gallia per impedire che gli arabi se ne impadronissero. Moriva nel 742. In quello stesso anno al figlio Pipino il Breve, che succedeva al padre a capo dell’esercito franco, nasceva il figlio Carlo a cui la storia avrebbe aggiunto il soprannome glorioso di Magno. Se Carlo Martello era sostanzialmente un Franco nato e cresciuto al di là delle Alpi, suo figlio Pipino era cresciuto in Italia, in Val di Chienti. Dopo le lunghe ricerche storiche in proposito, si è potuto anche stabilire che sia Carlo Martello che suo figlio Pipino furono sepolti dove oggi c’è la collegiata di San Ginesio e dove, più di 1.200 anni fà, era sorta l’Abbazia di Saint Denis, retta, per volere di Carlo Martello, da monaci Parisi, ossia della stessa etnia della popolazione che aveva dato il nome a Parigi (Augusta Parisiorum al tempo dei Romani). Per sé Carlo Martello aveva scelto come sede la sommità di quella roccia che oggi conserva resti di un antico castello nel punto più alto di Sant’Angelo in Pontano. Pontano è nome carolingio che in latino era detto Pons Ugonis e in volgare Ponticone, divenuto Pontone nel medioevo (lo stesso stemma del Comune raffigura un ponte). Indicava un territorio che aveva il suo centro nella odierna località di Macchie.
Fra l’abbazia e la sede dei Carolingi si estende oggi Pian di Pieca, ove scorre il Fiastra. La strada che ancora oggi fiancheggia il fiume era chiamata Salaria Gallica, perché sotto il monte Vettore andava a congiungersi con la Salaria consolare che scendeva a Roma, mentre a Fano raggiungeva il territorio abitato dai Galli Senoni.  Sia Pipino, sia suo figlio Carlo Magno, erano cresciuti qui, in un paesaggio che non è molto cambiato nell’aspetto che aveva allora, ma ha naturalmente subito tutte le variazioni storiche in linguaggio, centri abitati, usi e costumi per i milleduecento anni che sono seguiti fino ad oggi.  Sia il padre Pipino sia il figlio Carlo Magno conoscevano naturalmente la paterna lingua franca, ma capivano e un po’ parlavano il greco, parlato già a Osimo, che era una città della Decapoli bizantina;  capivano e parlavano anche il latino, che ormai si andava evolvendo verso un dialetto di tipo italiano, e anche la lingua dei Longobardi, che abitavano il Ducato di Spoleto e, in piccoli gruppi, vivevano anche al di qua dei Sibillini. Si può immaginare che sia Pipino che suo figlio Carlo ebbero un’educazione molto diversa da quella di Carlo Martello. Erano in ottimi rapporti col Papa di Roma, che era ancora, politicamente, un dipendente dell’imperatore di Costantinopoli, ma in pratica era autonomo anche nella gestione politica, per il fatto che era a capo della cristianità.
Papa Stefano II, entrato in contrasto coi Longobardi, nel 753 raggiunse Pipino a Ponticone e convinse i Franchi dell’opportunità che Pipino, già di fatto re dopo la deposizione del merovingio Childerico, fosse consacrato re dei Franchi dalle mani stesse del Papa. Si ebbero così in Italia due re in contrasto, quello dei Longobardi che risiedeva a Pavia e quello dei Franchi che risiedeva nell’odierna Sant’Angelo in Pontano. Berta, consorte di Pipino e madre di Carlo Magno, fu anch’essa consacrata regina, come fu consacrato re, insieme ai genitori, il piccolo Carlo, appena undicenne. La guerra fra i due popoli fu inevitabile e si protrasse fra Pipino e i re longobardi (Liutprando, Rachis e Astolfo) fino agli anni ’70 e poi fra Carlo Magno e Desiderio, ultimo re dei Longobardi. Pipino morì nel 768; fu sepolto in Saint Denis, oggi San Ginesio. Le esplorazioni col georadar hanno rivelato che la sua tomba esiste ancora intatta, insieme a quella di sua moglie Berta, nel sottosuolo del primitivo ingresso, oggi chiuso, dell’antica chiesa carolingia.
Quando nel 768, morto il padre, Carlo Magno salì al trono, non aveva alcuna esperienza di come si esercita il potere regale. Due anni dopo accettò passivamente che sua madre Berta gli facesse sposare una longobarda, Ermengarda, figlia del re Desiderio.  Si accorse ben presto dell’errore politico che aveva fatto: i Franchi, che avevano già sopportato malvolentieri come regina la bizantina Berta, si ribellarono all’idea che la loro nuova regina fosse una longobarda; così Carlo Magno, un anno dopo, non trovò di meglio che ripudiarla. Seguì la guerra con Desiderio, che fu privato del trono, e Carlo Magno si proclamò “Re dei Franchi, dei Longobardi e Patrizio dei Romani”.
Cessate le guerre coi Longobardi, Carlo Magno si dedicò a dare a tutta la Val di Chienti un assetto di territorio regale. Nel luogo dove oggi sorge Corridonia Pipino aveva già costruito una splendida chiesa dedicata a San Pietro, della quale i documenti ci dicono che aveva porte d’argento. Carlo Magno continuò quest’opera di trasferimento della sede regale da Ponticone  alla bassa valle del Chienti, ove, in una zona chiamata Palatium Aquis Grani, fece costruire la splendida cappella palatina, di cui resta l’attuale chiesa di San Claudio, oggi profondamente alterata nel suo interno.   Le ricchezze accumulate dai Carolingi come bottino delle varie guerre e l’aver favorito il formarsi di una nuova unità politica in occidente, indussero il Papa di Roma, che ormai era un Franco, Leone III, nella notte di Natale dell’800, a consacrare Carlo imperatore del rinato Romano Impero. Nel corso di sole tre generazioni i carolingi avevano visto un’incredibile ascesa della loro famiglia: Pipino il Breve, figlio del maiordomus Carlo Martello, era divenuto re e suo figlio Carlo Magno era divenuto imperatore, dando così una unità politica alle parti che ancora oggi sono le più significative dell’Europa continentale: l’Italia, la Francia e la Germania. Carlo Magno morì nel gennaio dell’814: tra un anno ricorreranno milleduecento anni dalla sua morte.

giovedì 5 marzo 2015

PERCHE' FRANCESCO? GIANFRANCO BALEANI HA AGGIORNATO LA SUA PRECEDENTE RELAZIONE

Perché Francesco?

Queste brevi note hanno lo scopo di far riflettere (togliendo molto ed aggiungendo un po’) sul perché Giovanni di Pietro Bernardone nato ad Assisi nel 1182 e meglio noto come San Francesco, fu sempre chiamato con quest’ultimo nome.

Iniziamo con ordine, facendo rilevare che “Francesco” (che nella lingua medioevale del luogo significava “Francese”) è un soprannome poiché, il nome con cui fu battezzato il figlio di Pietro di Bernardone e di sua moglie Pica, era appunto Giovanni. La storia è piena di personaggi famosi che si chiamano Francesco (o Francois, Francisco, ecc…) ma sono tutti nati dopo il 1200: non c’è nessun personaggio storico col nome Francesco nato prima del Santo. Ciò non esclude che qualche genitore possa aver chiamato Francesco, un proprio figlio già prima, ma ciò rappresenterebbe un’eccezione visto che, statisticamente, tale nome è fra i più frequenti dopo il 13° secolo mentre è sconosciuto prima. In realtà, c’era una zona geografica dove esso era relativamente diffuso già da prima, ma di questo parleremo più avanti; per ora ci basta far notare che, quasi sicuramente, il suo uso era limitato a quell’area ristretta, altrimenti si sarebbero sicuramente conosciuti personaggi storici con tale nome.

Sul perché Giovanni sia poi stato da tutti chiamato Francesco, l’ipotesi che va per la maggiore è la seguente:
- Il padre commerciava con la Francia (intendiamo l’attuale Francia che a quel tempo nei documenti ufficiali si chiamava ancora Gallia, oppure la si indicava col nome delle varie regioni: Provenza, Aquitania, …) e Provenzale era la moglie che discendeva dalla nobile famiglia dei Bourlemont, quindi in onore della moglie (secondo alcuni) o di quel paese che l’aveva fatto arricchire (secondo altri) il padre volle chiamarlo Francese, ovvero Francesco.

Iniziamo subito col dimostrare che l’origine francese (inteso nel senso sopra indicato) della signora Pica non ha alcun fondamento.
In via preliminare facciamo notare che il cognome Bourlemont fa riferimento ad una nobile famiglia che aveva i suoi possedimenti nella Francia nord-orientale (il bosco di Bourlemont era quello in cui Giovanna D’arco, circa due secoli dopo la nascita di San Francesco, sentiva “le voci”) quindi, era alquanto improbabile che Pietro l’avesse potuta conoscere in Provenza (che si trova a sud). Inoltre, i primi scritti a noi pervenuti sulla vita di San Francesco non dicono che la madre era francese; il primo ad asserire tale origine è P.Claude Frassen, francescano, che lo afferma nel suo libro”La règle du tiers-ordre de la Pènitence” scritto nel 1680. Questo sostiene di aver visto, tra i documenti antichi della famiglia Bourlemont, un atto di matrimonio tra Pietro e Pica, ma non ha mai prodotto tale documento quindi, come fa notare anche l’abbé Omer Englebert a pagina 36 del suo libro”La vie de Saint Francois d’Assise” edizioni Albin Michel S.A. –Paris 1947, l’asserzione è completamente fantasiosa. Qui di seguito riportiamo il passo citato in cui, con riferimento al Frassen, egli scrive: <>. Malheuresement, nul n’ayant jamais vu de fameux manuscrit, on peut considérer l’assertion de Frassen et de ceux qui la répètent comme entièrement fantaisiste.  (Pica - egli scrive - proviene dall’illustre casata dei Bourlemont, come risulta da un antico manoscritto conservato negli archivi di questa nobilissima famiglia >>. Purtroppo, non avendo nessuno mai visto il famoso manoscritto, possiamo considerare l'affermazione di Frassen e di coloro che la ripetono come del tutto fantasiosa).
Sul perché P.Claude Frassen abbia voluto scrivere (ma possiamo anche dire “inventare”, visto che non mostra le prove di ciò che afferma) forse ci può essere d’aiuto il fatto che, nel 1680, in Provenza, vescovo della diocesi di Fréjus-Toulon era Luis D’Anglure de Bourlémont, membro appunto di tale potente famiglia, al quale avrebbe fatto sicuramente piacere scoprire che fra i suoi avi c’era anche la madre di San Francesco.
Pica, quindi, non era provenzale e ancor meno poteva essere (come una minoranza afferma) originaria della Picardia poiché questa regione si trova al nord della Francia, quasi ai confini con l’attuale Belgio.
Come sopra accennato, inoltre, non si deve dimenticare che a quel tempo il territorio dell’attuale Francia era chiamato Gallia e, il primo documento ufficiale in cui viene denominata Francia risale al 1190, quando San Francesco aveva già otto anni. Oltre a ciò, è difficile ipotizzare che da quel momento in poi tutti improvvisamente abbiano iniziato a chiamarla Francia, basti pensare che nel greco moderno viene ancora chiamata Gallia. E’ pertanto improbabile che si usi un soprannome facendo riferimento ad un nome geografico ancora poco in uso.
Escluso quindi che la madre provenisse dall’attuale Francia, prendiamo in esame gli altri aspetti dell’ipotesi sopra esposta.
Il padre, si afferma, nel suo lavoro di mercante di stoffe si spingeva fino in Provenza, ma tale affermazione è tutta da provare poiché non c’è nessun elemento che lo dimostri e, in mancanza di prove, è più probabile desumere che i viaggi all’estero fossero tipici dei mercanti della costa (Pisa, Genova, Venezia, Amalfi, …) mentre quelli dell’interno commerciassero, tutt’al più, tra il Tirreno e l’Adriatico, oltre ad effettuare lavorazioni sui prodotti (in questo caso tessuti) e quindi essere non soltanto puri mercanti.
Non si riesce inoltre a comprendere come mai, se Pietro faceva tutti questi viaggi oltralpe, abbia smesso improvvisamente di farli quando il figlio  era cresciuto e lo aiutava nel suo lavoro, visto che nessuna fonte riporta di simili viaggi fatti da Francesco insieme al padre o da solo (si parla soltanto di viaggi in Italia).
Possiamo quindi affermare, con ragionevole certezza, che rapporti diretti tra il padre di San Francesco e la Gallia, ovvero l’attuale Francia, erano estremamente poco probabili.
Un’altra cosa che il buonsenso fa giudicare poco probabile è il fatto che un genitore dia al figlio un soprannome che faccia riferimento ad una località geografica che gli ha fatto fare buoni affari: chi chiamerebbe oggi il proprio figlio Americano se fa buoni affari con l’America o Russo se li fa con la Russia? E’ invece più probabile che il soprannome venga dato per caratteristiche tipiche della persona: l’accento con cui parla o il modo di comportarsi o, ancor più probabilmente, per un altro motivo di cui dirò più avanti.
Dopo aver smontato l’ipotesi espressa all’inizio, resta però la domanda: perché, se il suo nome di battesimo era Giovanni, tutti lo chiamavano Francesco?
L’enigma appare a questo punto irrisolvibile, ma lo è soltanto se non si mette in discussione la premessa secondo cui, quando si parla di Francia, si intende sempre e soltanto quella che attualmente viene così chiamata. In realtà, le aree geografiche prendono spesso il nome di chi le abita, ad esempio: la Normandia deriva dai Normanni che vi si erano stabiliti, l’Inghilterra dagli Angli che l’avevano occupata, la Scozia dagli Scoti che la abitavano, … .
Una prima domanda che ci possiamo porre è quindi: c’era nel medio evo un’area geografica in Italia che era abitata in maniera consistente dai franchi?
La storia ci dice che l’area dell’attuale Piceno marchigiano era caratterizzata da una forte presenza franca. Ne resta una traccia addirittura nel nome stesso della regione che da “Regio Picena”, con il franco Mark che significa Marca (il Markgraf in franco era il Margravio o Conte della Marca, intesa quest’ultima come terra di confine, in opposizione al Landgraf che era il Langravio o Conte territoriale, ovvero di un territorio non di confine) è divenuta (essendoci nel territorio più di una Marca) al plurale Marche.
La seconda domanda da porci è quindi: tale presenza era talmente importante da far chiamare quell’area Francia?
Per rispondere a questa domanda è utile analizzare alcuni scritti che, trattando di cose umbro-marchigiane, fanno riferimento alla Francia.
Uno di questi è il capitolo 13° dei “Fioretti di San Francesco” che parla del santo che, insieme ad un suo confratello, dalla valle di Spoleto andavano a piedi nella “provincia di Francia”, ad un certo punto del viaggio, decidono di cambiare itinerario e di recarsi a Roma che raggiungono in poco tempo, quindi far ritorno nel luogo da dove erano partiti. Dalla lettura di tale racconto, si evincono abbastanza chiaramente due cose:
1) che la “provincia di Francia” era un luogo non lontano dall’Umbria
2) che, essendo denominata “provincia” non si poteva certo riferire al territorio dell’attuale Francia, che anche a quel tempo era una delle nazioni più grandi d’Europa.
Un’altra testimonianza della Francia Picena è riportata nel sito web del Centro Studi Val di Chienti” in un articolo che analizza il passo del Telesforo Benigni che nella sua opera “SANGINESIO ILLUSTRATA” (che tratta di questioni alquanto locali, addirittura di una ristretta area del maceratese) riporta che il detto, riferito alla guerra tra San Ginesio e Ripe vinta dal primo: “costa più che le Ripe a San Ginesio” era notissimo anche in Francia.
Questi, però, sono solo indizi mentre la prova si può ritrovare negli studi fatti dal professor Febo Allevi (docente di Storia delle tradizioni popolari e di Storia della critica letteraria all’Università di Macerata dal 1971 al 1981) considerato uno dei massimi conoscitori della storia del territorio marchigiano.
Nel suo saggio “I Franchi e le tradizioni epico-cavalleresche nella Marca” contenuto in “Tra storia leggende e poesia” pubblicato postumo (nel 2005) il professore illustra, documentandola, la forte presenza franca nel territorio Piceno già dalla fine del VII secolo e l’utilizzo del nome “Francesco” quale nome proprio di persona. Oltre a questo, troviamo quello di “Via Francesca” con il quale venivano chiamate ben due strade, quello di “Val di Francia” (dalle parti di Cancelli nel Fabrianese) nonché quello dato ad un tipo di moneta: “Solidos Franciscos” che si ritrova in diversi documenti dell’alto medioevo e potremmo continuare ancora.
Tale forte presenza trae origine dall’Abbazia Benedettina di Farfa che si trovava nella Sabina, ma aveva grandi possedimenti nel Piceno dove, per diversi anni a partire dalla fine del IX secolo, i monaci addirittura trasferirono la loro sede (più esattamente a Santa Vittoria in Matenano).
In tale abbazia, come documenta l’Allevi, a partire dalla fine del VII secolo, i primi sei abati furono tutti di origine franca (soprattutto aquitani ed è proprio dall’Aquitania che si reputa giungessero molti profughi in fuga dai saraceni).
Nel territorio delle attuali Marche, non solo c’era una numerosa comunità franca, bensì era fortemente presente anche il loro re Pipino, sua moglie Berta e l’imperatore Carlo Magno, come si evince, sia dalla toponomastica del territorio che dai molteplici documenti dell’epoca.
A riprova del radicamento dei franchi in queste terre, inoltre, non si deve dimenticare del fatto che dal 891 al 898 presero il titolo di imperatore: prima Guido (della famiglia dei Guidoni, collaterali dei Carolingi) duca di Spoleto e marchese di Camerino, poi suo figlio Lamberto.
L’argomento è interessante e, in questa sede, per i nostri fini è già stato trattato abbastanza, chi volesse fare ulteriori approfondimenti può consultare dell’opera sopra citata.
Oltre al professor Febo Allevi, ed in maniera ancor più specifica, ha trattato l’argomento della Francia Picena il Prof. Giovanni Carnevale nei suoi ormai numerosi libri. Tali scritti non sono sintetizzabili in poche righe, quindi invitiamo a leggerli anche perché spiegano come mai ci sia stata una vera e propria “damnatio memoriae” per quanto riguarda la presenza franca nelle Marche.
Con la Francia situata nel Piceno marchigiano, molte tessere del mosaico trovano la loro collocazione:
1) La signora Pica poteva a questo punto essere anche francese (nel senso di Francia Picena) ed il suo nome, in verità alquanto strano, ha una radice picena che più di così non si può ed inoltre, anche nell’attuale dialetto maceratese, con “pica” si intende la “ghiandaia” un uccello tipico di questa terra che quando canta fa un rumore pazzesco simile quasi ad un branco di oche.
2) Il padre di San Francesco commerciava sicuramente con la Francia Picena e qui avrebbe potuto conoscere sua moglie.
3) Si potrebbe ipotizzare che Giovanni potrebbe, fin da piccolo, aver preso dalla mamma l’accento “francese”, usare espressioni verbali tipiche di tale idioma ed avere comportamenti che, ad Assisi, venivano associati ad una provenienza dalla Francia Picena, ma a mio avviso è un’altra l’ipotesi più probabile, quella che vado ad illustrare nel punto successivo
4) Capita ancor oggi che si voglia dare al proprio figlio il nome di un suo avo scomparso e capita altresì che, se l’avo (o più in generale una persona cara) viene a mancare poco dopo che il bimbo è stato battezzato, in famiglia si inizia a chiamarlo col nome della persona defunta. Ora, se la signora Pica veniva dalla Francia Picena, poteva avere un padre o un familiare (o una persona cara a lei o a suo marito) di nome Francesco che è venuto a mancare poco dopo il battesimo di Giovanni ed a questo, da quel momento, hanno iniziato a chiamarlo Francesco.
Ritengo quest’ultima spiegazione la più plausibile perché, se si fosse trattato di un soprannome legato al comportamento o all’accento, questo sarebbe stato dato in età almeno preadolescenziale e non sarebbe riuscito a cancellare completamente il nome di battesimo. Ancor oggi, invece, notiamo che persone a cui vengono dati dopo il battesimo nomi diversi di congiunti defunti, tali nomi oscurano quello originale.

Riepilogando, quindi, è stata ampiamente smentita la tesi maggiormente accreditata e riportata all’inizio del presente articolo, ma il vuoto così creato necessita di essere ricolmato perché resta il fatto che il piccolo Giovanni fu poi chiamato Francesco.
Nella seconda parte dell’articolo si dà una probabile ipotesi di come colmare questo vuoto, ipotesi che si basa sulle prove dell’esistenza di una Francia Picena, quasi sicuramente l’unico territorio (o uno dei pochissimi)  in cui si usava il nome Francesco.

INDAGINE CON TELECAMERA-SONDA A SAN CLAUDIO IN VAL DI CHIENTI


I TEDESCHI GIUSTIFICANO CON OGNI MEZZO LA DATAZIONE DELLA CAPPELLA PALATINA DI AACHEN

DATE A CARLO (IL SEMPLICE) QUELLO CHE NON È DI CARLO (MAGNO)

Una moneta carolingia d'argento è stata trovata il 22 Febbraio 2008 durante gli scavi archeologici nelle fondamenta della Cappella Palatina di Aquisgrana ad Aachen (Germania).
Fig. n. 1.





Il dritto della moneta rappresenta una croce al centro, circondata dall’iscrizione

CARLVS REX FR[ancorum] che dal latino significa Carlo, Re dei Franchi

Sul retro, troviamo il monogramma paleografico tipico dei re carolingi (che nella monetazione può oscillare fra K e C)
Fig. n. 2.









La moneta (un denaro) venne riferita all’Imperatore Carlo Magno (2 Aprile 742 ca. – 28 Gennaio 814) ed i ricercatori che l’hanno studiata la attribuiscono ad un periodo di poco successivo al 794 d. C. ca., come proveniente dall’antica Zecca carolingia di Melle (Metullum) in Francia.

Si propone una nuova datazione della suddetta moneta: essa andrebbe piuttosto attribuita all’Imperatore Carlo III il Semplice (17 Settembre 879 – 7 Ottobre 929).
Si confrontino la seguente moneta, Fig. n. 3, sostanzialmente identica al conio della Fig. n. 1, con la successiva moneta – sempre carolingia – di fig. n. 4.
Fig. n. 3.




Carlo il Semplice.
898 – 923 d. C.
Denaro
Zecca di Melle (Francia).
Ar gr. 1,80.
DRITTO: + CARLVS REX FR [ancorum] intorno a croce.
ROVESCIO: + MET + VLLO intorno a monogramma di Carlo.
Prou 702; dep. 627; MEC I 952ff.






Fig. n. 4.




Carlo Magno.
794 – 814 d. C.
Denaro.
Zecca di Milano (Italia).
Ar gr. 1,80 ca.
DRITTO: + CARLVS REX FR[ancorum] intorno a croce.
ROVESCIO: + MEDIOL[anum] intorno a monogramma di Carlo Magno.
CNI 24. Verri 2. MEC 1, 743.

Come puntualizza Alessia BOLIS, (cfr “Legende circolari, legende in circolo: un repertorio di scrittura numismatica”, in “ACME”, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studì di Milano, Vol. LVIII, Fasc. II, Maggio - Agosto 2005, pp. 132 – 133):






Dunque prendendo come riferimento il monogramma ed osservando la legenda (la scritta che lo circonda) notiamo che il nei denari di Carlo Magno la croce è ad ore 12 in alto. Invece nei denari di Carlo il Semplice la croce si trova ad ore 13 in alto. Quindi molto probabilmente il denaro trovato recentemente negli strati archeologici ad Aachen sarebbe da attribuire più correttamente a Carlo il Semplice, un reperto quindi più recente di almeno 84 anni (se non di 129)!

Trieste, Febbraio 2015.                                                                                                                           Andrea KEBER