mercoledì 20 dicembre 2017

La congiura di Santa Croce al Chienti per deporre Carlo il Grosso

Dalla rubrica  "LO SCAFFALE" del TG3 Marche.
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Nell'887 la inaugurazione della nuova chiesa di Santa Croce al Chienti offre l'alibi per radunare tutti i vescovi e i Grandi della Francia Picena affinchè possano accordarsi su chi dovrà sostituire l'Imperatore Carlo il Grosso, gravemente malato al cervello e già da tempo operato alla testa dai monaci basiliani della abbazia di Sant'Eutizio.  Molti anni dopo, il Barbarossa trasferirà il suo corpo, credendo fosse confuso con quello di Carlo Magno

mercoledì 6 dicembre 2017

Dal libro del Prof. Giovanni Carnevale :" La scoperta di Aquisgrana in Val di Chienti"


CAP. VIII
LA NUOVA ROMA CAROLINGIA IN VAL DI CHIENTI
Varie fonti carolinge riferiscono che Carlo Magno fece sorgere sul territorio di
Aquisgrana una nuova Roma. La tradizione di Aachen non ha permesso di localizzarla
in Val di Chienti, ma oggi è possibile farlo, anche perché le fonti ne parlano
con sufficiente ampiezza di dettagli.
L’esistenza di una nuova Roma ad Aquisgrana, con una sua Arx dominante dall’alto,
il suo Senatus, il suo Forum, le sue Thermae, i suoi Balnea, il suo
Theatrum, un suo Portus, un suo Templum è ampiamente documentabile, ma la
storiografia ufficiale, non potendone additare in Aachen alcun resto, alcun possibile
sito, e non sapendo in concreto cosa dirne, ha preferito eludere il problema.
In Aachen il solo edificio che è fatto passare per carolingio è la cosiddetta cappella
palatina, oggi Duomo dal 1931, ma si è già visto che l’edificio è stato voluto
dal Barbarossa perché accogliesse i resti di Carlo Magno traslativi dalla Val di
Chienti. Non esistono in Aachen altre costruzioni riannodabili all’epoca carolingía,
non esistono neppure resti del Palatium, che si immaginano scomparsi perché
conglobati nelle fondamenta del Municipio gotico costruito nel sec. XIV. I
commentatori delle fonti relative alla “nuova Roma” carolingia - poiché devono
pur fornirne una qualche spiegazione - riducono l’espressione a una enfatizzazione
retorica del complesso del Palatium e della Cappella: il solito travisamento o depistaggio
cui si ricorre ogni volta che i dati forniti dalle fonti non sono applicabili
ad Aachen.
Chiarito, mi pare definitivamente, che non la cappella di Aachen ma San
Claudio è ciò che resta dell’autentica cappella palatina di Aquisgrana, si pone ora
il problema di verificare se ciò che le fonti dicono sulla nuova Roma trova riscontro
nell’ambiente topografico e nei resti urbani oggi presenti in Val di Chienti.
Tra gli scritti carolingi il più ricco in dettagli sulla nuova Roma è il testo attribuito
ad Angilberto (Lib. III). Ne offro un brano in traduzione, dal verso 94:
Dove va rifiorendo l’Urbe, la “seconda Roma”
coi suoi grandiosi edifici,
e tocca le stelle con le sue cupole
emergenti al di sopra delle mura,
Carlo Magno, in piedi sulla sommità dell’ARX,
indica da lontano i siti delle varie costruzioni
e fissa il perimetro della “futura ROMA”.
Lì ordina che ci sia il FORUM, e anche il SENATUS,
inviolabile per legge,
dove i senatori fissino i diritti del popolo,
si occupino delle leggi,
ed emanino ordinanze da rispettare come sacre.
Le maestranze lavorano alacremente:
chi ricava colonne da massi adeguati,
chi pensa a costruire l’ARX,
chi fa rotolare con le mani massi ingenti.
Scavano un PORTUS,
gettano le profonde fondamenta del THEATRUM,
coprono le costruzioni con alte cupole.
Altri rintracciano le sorgenti calde delle THERMAE,
recingono di mura i BALNEA
che ribollono per naturale calore,
fissano artistici sedili su gradini di marmo.
La fonte dell’acqua bollente non cessa di ribollire
e se ne spargono ruscelli in tutte le parti della città.
Altri altrove gareggiano nel costruire al Re Eterno
uno splendido TEMPLUM, di imponenti dimensioni,
e il sacro edificio si innalza verso il cielo con eleganti mura.
Lontano una parte del popolo sta in alto,
e con entusiasmo colloca massi sulla sommità del colle,
cementando i marmi con un impasto ‘a sacco’ di calce.
Un’altra parte sta dislocata lungo i gradini,
accogliendo volta a volta i carichi dei portatori
e fornendo il materiale alle mani impazienti dei costruttori.
Altri si caricano blocchi sulle spalle
o ne fan rotolare verso le mura.
Qua e là c’è chi, con la testa piegata a terra,
depone dalle spalle enormi fasci,
fiaccato dal peso gravoso. I carri stridono,
un confuso rumorio sale al cielo.
È tutto un gridare,
tutto un rimescolarsi di voci e rumori nell’URBE.
Vanno e vengono gli alacri portatori,
sparsi qua e là per l’URBE,
gareggiano nell’ammassare il legno
per la superba ROMA. Altri altrove preparano armi,
fabbricano utili strumenti appuntiti
con cui si possano scolpire i marmi, segare i massi.
Fervono i lavori …
Segue un lungo brano poetico in cui si descrivono le formiche che in estate si
procurano il cibo per l’inverno, o le api che raggiungono i prati in fiore e tornano
cariche di bottino, per concludere al verso 136 che “non diversamente i Franchi si
aggirano per l’Urbe”.
Si torna subito dopo al realismo del paesaggio locale con la linea boscosa sullo
sfondo, in parte presente ancor oggi a ridosso dell’abbazia di Fiastra e che allora
si estendeva amplissima fino a Gualdo (da Wald = bosco) e oltre, fino a congiungersi
coi boschi del preappennino piceno. La sottostante valle era ravvivata da fitta
presenza di uccelli che volteggiavano sul fiume (v. 140) e da tori che pascolavano
sulle rive - in ripis -, si immergevano nelle acque del fiume o con corsa veloce si
portavano fin sulle rive del mare - ad litora - (v. 141-143).
I versi 137-139 contengono anche una notizia di enorme valore per l’archeologia
locale: vi si dice che non procul ab Urbe c’è una foresta, ameni luoghi verdeggianti
e nel mezzo si colloca un verde parco recintato per animali (lucus) e freschi
prati irrigui disseminati di molti ruderi (multis circumsita muris).
Si faccia molta attenzione ai “molti ruderi” che erano allora disseminati nella
piana del Fiastra: erano i ruderi della romana URBS SALVIA, una città evidentemente
scomparsa senza lasciare traccia di sé, almeno in superficie. Tutte le antiche
città romane del Piceno sono scomparse. Non vedo perché Urbs Salvia dovrebbe
costituire una così vistosa eccezione. Già Procopio ne aveva constatato la totale
rovina nel sec. VI:
.........................
...........................
(25)
I ruderi che oggi si vedono nella celebre zona archeologica non sono quelli
della romana Urbs Salvia; sono solo i ruderi della nuova ROMA fatta costruire da
Carlo Magno. La lettura del testo di Angilberto non ammette altre interpretazioni:
la descrizione dell’Urbs che stava nascendo è oggettivamente realistica. Carlo
Magno viene presentato in atteggiamento di dar vita a un impianto urbano nuovo,
che coincide con quanto oggi affiora dal terreno, e che la gente del posto continua
ancora inconsciamente a chiamare “ROMA”. Il che non può non sorprendere.
Riassumo le coincidenze tra il testo carolingio e i ruderi affioranti nella zona
archeologica :
- C’è in alto la rocca, l’ARX, e sono ancora visibili tracce di costruzioni con
68
dove i senatori fissino i diritti del popolo,
si occupino delle leggi,
ed emanino ordinanze da rispettare come sacre.
Le maestranze lavorano alacremente:
chi ricava colonne da massi adeguati,
chi pensa a costruire l’ARX,
chi fa rotolare con le mani massi ingenti.
Scavano un PORTUS,
gettano le profonde fondamenta del THEATRUM,
coprono le costruzioni con alte cupole.
Altri rintracciano le sorgenti calde delle THERMAE,
recingono di mura i BALNEA
che ribollono per naturale calore,
fissano artistici sedili su gradini di marmo.
La fonte dell’acqua bollente non cessa di ribollire
e se ne spargono ruscelli in tutte le parti della città.
Altri altrove gareggiano nel costruire al Re Eterno
uno splendido TEMPLUM, di imponenti dimensioni,
e il sacro edificio si innalza verso il cielo con eleganti mura.
Lontano una parte del popolo sta in alto,
e con entusiasmo colloca massi sulla sommità del colle,
cementando i marmi con un impasto ‘a sacco’ di calce.
Un’altra parte sta dislocata lungo i gradini,
accogliendo volta a volta i carichi dei portatori
e fornendo il materiale alle mani impazienti dei costruttori.
Altri si caricano blocchi sulle spalle
o ne fan rotolare verso le mura.
Qua e là c’è chi, con la testa piegata a terra,
depone dalle spalle enormi fasci,
fiaccato dal peso gravoso. I carri stridono,
un confuso rumorio sale al cielo.
È tutto un gridare,
tutto un rimescolarsi di voci e rumori nell’URBE.
Vanno e vengono gli alacri portatori,
sparsi qua e là per l’URBE,
gareggiano nell’ammassare il legno
per la superba ROMA. Altri altrove preparano armi,
fabbricano utili strumenti appuntiti
con cui si possano scolpire i marmi, segare i massi.
Fervono i lavori …
Segue un lungo brano poetico in cui si descrivono le formiche che in estate si
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25) Traduzione: “Egli stesso, allontanandosi dalla riva del mare, con Narsete e il rimanente esercito
attraversa la città di Urbs Salvia, che precedentemente Alarico aveva talmente distrutta da non
lasciarle dell’antico splendore nient’altro che qualche rimasuglio di una porta e della pavimentazione
del suolo” (Procopio di Cesarea, La guerra gotica, Lib. II, c. 16)
riempimento “a sacco”, che Angilberto dice realizzate dal popolo che “saxa
locat, solido coniungens marmora nexu” (v. 115).
- Più in basso c’è il THEATRUM, di cui Angilberto ha visto realizzare il profondo
invaso “statuunt profunda theatri fundamenta” (v. 104). Tutta la terra rimossa
per creare l’invaso venne contenuta da un robusto muraglione alle spalle del
proscenio. Si realizzò così un terrapieno di m 94 x 66,50, delimitato sui lati da
un portico, come rivelano le basi di colonne ivi rinvenute. Era il FORUM, di
tipo ellenistico, ricordato da Angilberto.
- Le THERMAE sono l’edificio a nicchioni che tanto rassomiglia al calidarium di
Khirbet al Mafjar. I relativi BALNEA o piscine (v. 107) sono anch’essi presenti,
ma subirono successive trasformazioni, penso al tempo di Ottone III.
- Ci sono anche le MURA, ma io esito a definirle carolinge. Sono eseguite con
una tecnica che non ha niente a che vedere con quella a sacco di tipo romano,
reimportata in Val di Chienti dalle esperte maestranze venute dall’Oriente bizantino,
ormai islamizzato. Più che “a sacco” sono farcite con antico materiale
romano rottamato. Per lo più pezzi di tegole altrimenti inservibili. Non sono
mura da “Rinascenza carolingia”, ma posteriori, forse del tempo di Ottone III,
quando la “nuova Roma” divenne la sua Urbs regia, il centro per la Renovatio
Imperii Romanorum. I torrioni ottagonali lungo la cinta spingono verso una tale
soluzione, perché Ottone III amava le costruzioni ottagonali per ragioni di omonimia.
Otto = 8, richiamavano insomma il suo nome. Tale cinta, inoltre, non era
difendibile in caso di assalto se non disponeva, all’interno delle torri ottagonali
e lungo il circuito, di strutture lignee, dall’alto delle quali si potesse tener testa
agli assalitori. Strutture del genere sono più facili da immaginare in epoca sassone,
quando le tecniche delle costruzioni lignee del nord-Europa rifluirono in Val
di Chienti, che non al tempo di Carlo Magno, quando a guidare i lavori erano i
magistri venuti dall’Oriente, ove il legno, per necessità di cose, era scarsamente
impiegato.
Se ne dovrebbe arguire che l’antica cinta carolingia fu demolita per far posto a
quella ottoniana, con un perimetro forse più ampio.
Angilberto non fa cenno dell’anfiteatro, che perciò potrebbe continuare ad essere
considerato una costruzione dell’età flavia, ma io ho i miei dubbi in merito.
Per progettazione ed esecuzione l’anfiteatro richiama il teatro, certamente carolingio
perché Angilberto lo vide sorgere dalle fondamenta. Del resto l’anfiteatro
della nuova Roma presenta un’arena cosi poco profonda da non permettere spettacoli
con belve; un’esclusione non facilmente spiegabile per l’epoca romana,
ma logica per l’epoca carolingia. Se fatta da Carlo Magno, l’arena non doveva
servire per spettacoli gladiatori, ma a quotidiana palestra di arti marziali per le
truppe che svernavano in Aquisgrana, o anche a sede di “ludi”. Potrebbe alludere
a questo il v. 150 in cui si dice che Carlo nei pressi della “nuova Roma”
“(curare) solet gratos in gramine ludos”.
Vi si potevano anche tenere duelli giudiziari o “giudizi di Dio”, il tipico modo
di risolvere contese presso le popolazioni franche o longobarde insediate in
Italia. In quest’ottica avrebbe anche una funzione il canale destinato a immettere
acqua nell’arena per tenerla sempre umida e impedire il sollevarsi di polvere. E
potrebbe forse trovare una plausibile spiegazione la particolarità dell’ingresso
secondario che fiancheggia quello principale di sud-est, funzionale ai bisogni
delle truppe.
So bene che in base a un’iscrizione mutila rinvenuta durante gli scavi si crede di
poter datare il monumento con assoluta precisione al 75-76 dopo Cristo. Si deve
però tener conto che l’anfiteatro era a breve distanza dalle rovine della romana
Urbs Salvia e che per costruire la Roma carolingia se ne utilizzarono certamente
i resti. Il rinvenimento dell’iscrizione avrebbe sicuro valore solo se si fosse
trovata ancora murata in bella vista, e non fra altro materiale di scavo, come
effettivamente avvenne. E il termine amphitheatrum è solo supposto, non presente.
- Nella nuova ROMA non c’è traccia di un impianto urbano a cardo e decumano,
tipico delle città di origine romana e presente in Urbs Salvia perché 150 anni
dopo la sua distruzione Procopio di Cesarea ne vide forse ancora qualche resto.
URBS SALVIA è dunque una realtà archeologica distinta dalla nuova ROMA, i
cui resti, 800 anni dopo Procopio e dopo lo smantellamento operato dai cistercensi
impressionarono ancora Dante.
Il testo di Angilberto contiene altri riferimenti validi a meglio localizzare in Val
di Chienti la “nuova Roma” che (lo si è già visto) giaceva comunque in una valle
e non era lontana dal mare.
Interessantissimi rilievi di natura topografica si possono cogliere nella descrizione
di una giornata di caccia, fatta da Angilberto.
Per la caccia al cinghiale tutta la vallata si mobilitava: quando il sole sorgendo
illuminava i monti (Sibillini), i figli di Carlo Magno si alzavano dal “regale talamo”
(v. 156), mentre una schiera di nobili, radunatasi da ogni parte, li aspettava fuori
dell’ingresso. Al v. 168 si fa finalmente apparire Carlo Magno, ma subito dopo lo
si fa sostare nella vicina cappella a pregare. Quando il re usciva dalla cappella -
sacra limina templi deseruit (v. 170) -, tutt’intorno era un latrare di cani e un affollarsi
di personaggi. Agli squilli delle trombe militari le porte della nuova Roma si
spalancavano e la gioventù si precipitava di corsa lungo la valle verso il mare
… altae Urbis panduntur classica portae,
cornua concrepitant, fragor ingens atria complet
paecipitique ruunt iuvenes ad litora cursu. (v. 181)
Usciva intanto dalle sue stanze la “bellissima” regina Liutgarda e saliva a
cavallo. Il poeta indugia a descriverne l’acconciatura del capo, le preziose vesti, i
gioielli, i nobili del seguito. I figli col loro ampio corteggio l’aspettano all’uscita:
Pipino, Rhotrud che apriva il corteo, Berta. Lasciavano i sacrata Palatia anche
Gisella, Rhodaid, Theodrada assisa su un cavallo bianco, regalmente ornata e circondata
da giovani ancelle emozionate. Chiudeva il regale corteo Hildrud e subito
dopo seguiva il Senato della nuova Roma. Il corteo si dirigeva verso i lidi del
mare e a un certo punto si univa al corteo anche tutto l’esercito.
… regique exercitus omnis
iam sociatus adest;... (v. 269)
In Val di Chienti, tra il lido del mare Adriatico e la zona archeologica di
Aquisgrana, c’è una vasta pianura che ancor oggi si chiama “Campo Maggio”. Era
qui, al Campus Maius, che stazionava l’esercito carolingio. Tutta la valle del basso
Chienti poteva così essere sbarrata da cani e cavalieri.
La caccia aveva inizio e ben presto un fulvo cinghiale, anelante e spossato per
il tanto correre a causa dell’inseguimento, veniva spinto sulla spiaggia del mare.
Qui Carlo, accorrendo a cavallo, lo finiva. La povera bestia morendo si voltolava
nella sabbia dorata in flava moriens sese volutat harena.
I figli di Carlo Magno assistevano alla scena dai colli sovrastanti il mare, regalis
haec proles speculatur ab alto (v. 299). (26)
Tutti poi prendevano parte alla caccia e la strage di cinghiali proseguiva fino a
sera, quando Carlo Magno divideva equamente il bottino e intraprendeva in senso
inverso il percorso fatto al mattino, inde reflectit iter, campum repetens priorem
(v. 314).
Il campum è di nuovo il “Campo Maggio”, questa volta ben evidenziato dal
fatto che al centro c’erano ricche tende piantate a terra (per ospitare i membri
della famiglia regale) e da una parte e dall’altra faceva bella mostra di sé lo splendido
accampamento dei condottieri franchi.
Aurea hic terris passim tentoria fixa /stant, pomposa ducum hinc inde et castra
nitescunt (v. 318). Qui si concludeva la festa mangiando, bevendo e prendendo poi
sonno a notte inoltrata.
Sono così emersi dal testo di Angilberto significativi elementi che caratterizzavano
la Val di Chienti in epoca carolingia. Insieme a dati precedentemente noti,
essi permettono una prima provvisoria schematizzazione del territorio della valle
nel modo seguente:
––––––––––––––––
26) È al brano poetico attribuito ad Angilberto che Alessandro Manzoni si è ispirato per il celebre
coro dell’Adelchi, quando Ermengarda
… da un poggio aereo, / il biondo crin gemmata, / vedea nel pian discorrere / la caccia affacendata,
/ e sulle sciolte redini / chino il chiomato sir;
e dietro a lui la furia / de’ corridor fumanti; / e lo sbandarsi, e il rapido / redir de’ veltri ansanti;
/ e dai tentati triboli / l’irto cinghiale uscir;
e la battuta polvere / rigar di sangue, colto / dal regio stral: la tenera / alle donzelle il volto /
volgea repente, pallida / d’amabile terror.
Oh! Mosa errante! oh! tepidi / lavacri d’Aquisgrano! / ove, deposta l’orrida / maglia, il guerrier
sovrano / scendea del campo a tergere / il nobile sudor!
Se alla “Mosa” si sostituisce – almeno mentalmente – il “Chienti”, la descrizione manzoniana
rispetta appieno l’ambiente naturale della Val di Chienti
- Nell’alta Val di Chienti, sui colli e nelle gole del preappennino si erano stanziati
cenobiti orientali rifugiatisi in Italia.
- Qua e là c’erano civitates, evidentemente latine, e ci siamo già imbattuti in due
nomi di esse, Julum oggi Giulo e Taurinis oggi Pieve Torina.
- A ridosso del medio corso del Fiastra stava sorgendo la nuova Roma, l’Urbe,
con tanto di Senato, che nel corteo con cui si aprivano le cacce prendeva posto
subito dopo i membri della famiglia regale (v. 264).
- In giro sui colli contigui alla valle si elevavano le residenze dei nobili franchi.
Lo si ricava dal fatto che la nobilium manus che attendeva in limine primo l’uscita
della famiglia regale, si era radunata per la caccia da ogni parte ex omni
parte collecta (v. 157).
- Non longe ab Urbe, tra la foresta in alto e ameni luoghi verdeggianti intorno,
c’erano le rovine di Urbs Salvia e un lucus cioè un bosco a radure, recintato,
con animali liberi. Quella specie di zoo di cui parlano le fonti? Se si, qui forse
visse per 12 anni l’elefante venuto dall’Oriente.
- Scendendo verso il mare si incontravano campi coltivati suddivisi in MINISTERIA,
CURTES, VILLAE. Se ne è ampiamente parlato esaminando il “Capitulare
de villis”.
- Ove oggi sorge San Claudio si ergeva la fastosa residenza di Carlo Magno con i
sacrata Palatia (v. 262) e la Cappella palatina.
- Più a valle, nella piana sottostante l’odierna Morrovalle, si estendeva il Campus
Maius che ancor oggi non ha altra denominazione che quella di “CAMPO
MAGGIO”, ove erano acquartierate le truppe dei Franchi.
La nuova Roma andava sorgendo a una certa distanza dal Palatium, cosicché
Carlo Magno poteva facilmente controllarla da vicino, pur risiedendo con la corte
in uno splendido isolamento nel verde. Era in fondo lo stesso modo di risiedere
inaugurato in Oriente dai califfi omayyadi. Essi avevano fatto sorgere i loro palazzi
lontano da Damasco, la capitale, nelle oasi come a Khirbet al Mafjar, o addirittura
in pieno deserto. La scelta fatta da Carlo Magno di non far sorgere la nuova
Roma in una zona contigua al Palatium, ma leggermente distanziata da esso,
potrebbe essere stata influenzata dai magistri orientali operanti a corte, che gli
suggerivano di attenersi ai modelli orientali. La “Rinascenza carolingia” deve
molto a Carlo Magno che fu il mecenate del breve ma intenso rinnovamento tecnico-
culturale messo in moto nella Val di Chíenti, ma chi ne tradusse in pratica le
direttive, almeno nelle realizzazioni architettoniche, furono i magistri che guidavano
le maestranze di orientali. L’architettura dell’Occidente ne doveva uscire profondamente
trasformata.
Da qualche anno si conducono campagne di scavi per riportare integralmente
alla luce il basamento di un cosiddetto tempio della Dea Salus, che si fa risalire al
primo secolo della Roma imperiale. Ma come può archeologicamente risalire a
tale epoca una costruzione alla cui base c’è un’arcata sassanide, cioè con due centri
di curvatura, ignoti all’architettura romana? Io, per sapere che funzione avesse
un tale edificio, attendo il completamento degli scavi, ma già adesso so, per via
dell’arco sassanide, che esso non può risalire a un’epoca anteriore al sec. VIII-IX.
So anche che non possono essere di epoca romana gli affreschi ivi esistenti, perché
addossati all’arcata sassanide e per di più con precisi riscontri tipologici e tecnici
con l’arte figurativa ommayade dell’VIII secolo, come la raffigurazione del
leone che balza su una gazzella e la stringe fra i suoi artigli, presente sia in un
mosaico di Khirbet al Mafjar sia in un affresco del criptoportico carolingio.
Se, come è probabile, si tratta effettivamente del basamento di un tempio, perché
non ipotizzare un edificio sacro cristiano dell’Alto Medioevo? In fondo
Angilberto colloca, nella nuova Roma che gli orientali stavano costruendo per
Carlo Magno, anche uno “splendido tempio di imponenti dimensioni”. E in una
tale prospettiva il criptoportico poteva essere uno xenodochium, cioè servire a
ospitare in tutta sicurezza, di notte, i pellegrini, i “romei” che in gran numero
calavano a Roma, o altri forestieri: le donne erano ospitate sul lato anteriore, separate

dagli uomini cui erano riservati gli altri tre lati del quadrilatero.