La nascita della lingua
italiana e la questione francescana
L’impulso a buttare giù
queste due righe mi è venuto dall’essere casualmente incappato in un blog in
cui un siciliano riportava gongolando l’ipotesi di uno studioso che diceva che l’italiano come lingua è nato in
Sicilia, dalla scuola siciliana fiorita alla corte di Federico II. Non sono
d’accordo. Quando è troppo è troppo!
Perché la scoperta di
Aquisgrana in val di Chienti getta nuova luce anche sulla nascita del nostro
idioma nazionale.
Quando la storia ufficiale
accetterà la tesi di Giovanni Carnevale ed ammetterà che il binomio “ ROMA ET
FRANCIA” nell’alto Medioevo era situato nell’attuale Piceno, sarà più chiaro
per tutti anche come ha avuto inizio la nostra lingua italiana.
La dicitura “Roma et Francia”
compare nel famoso, ( si fa per dire), astrolabio carolingio, conservato nel museo
de” l’Istitut du monde Arabe” a Parigi, a un tiro di schioppo da Notre-Dame,
sulla “rive gauche “ della Senna.
Questo astrolabio, scoperto
da Marcel Destombes, rappresenta un rompicapo irrisolto per i medievisti, che chiudono
la questione, come succede spesso in questi casi, dichiarando l’oggetto un
falso. Ma, se ha senso falsificare un documento, che senso ha falsificare un
oggetto, io mi domando.
Questo astrolabio attesta che
quando fu costruito, verso la fine del X secolo, perché i caratteri utilizzati
sono di quel periodo, la Francia era un po’ più a Sud e Roma un po’ più a Nord
rispetto alla collocazione attuale.
Ma ora il discorso che mi
interessa sviluppare è la questione della nascita della lingua italiana, sulla
quale circolano anche da parte degli esperti ipotesi discutibili. Ne esiste una
sbilanciata verso Nord, che attribuisce gli albori della lingua all’incontro
fra il Latino parlato e le “chansons” dei trovatori provenzali; un’altra,
sbilanciata a Sud, vuol dare il merito alla scuola siciliana, quel gruppo di
poeti che animavano la vita di corte di Federico II.
Io non sono uno studioso
della lingua né un esperto di glosse e di fonemi, ma mi son fatto un’idea su
come è nata la lingua italiana e cercherò di esporla, appoggiandomi al noto
proverbio: “in medio stat veritas”. E’ vero, ho sbagliato, “ in medio stat
virtus” “et veritas stat in vino”, ma è un errore che ormai fanno in molti: non
facciamone una questione di lana caprina, semmai ne riparliamo in un’altra
occasione.
Nel “ De vulgari eloquentia”
Dante, o chi per lui, ( non è matematico che l’autore della Divina Commedia
abbia scritto anche questo trattato), attesta che ai suoi tempi nella nostra penisola
si potevano distinguere 14 dialetti. Quale fra questi può assurgere alla
nobiltà di lingua? Vengono scartati
tutti ma, prima di concludere, il discorso si interrompe. Sembra che
nelle intenzioni dell’autore il trattato scritto in latino doveva essere di
quattro libri, ma si ferma al secondo, senza una precisa presa di posizione.
Siccome per ultimo si parla del dialetto toscano, si direbbe che sarebbe questo
quello più titolato ad essere elevato al rango di lingua per il sommo poeta.
Posso immaginare che se Dante
avesse completato il “De vulgari eloquentia” alla fine avrebbe scritto:
“L’Italiano l’ho inventato io!”
Credo che Dante, nella sua
boria, fosse cosciente che la sua opera potesse essere considerata come l’alba
della lingua italiana, e sono molti gli italiani che sono di questo avviso. Non
è possibile negare che la lingua volgare con lui diventa “illustre”. Però, pur
riconoscendo l’enorme importanza del sommo poeta nell’inaugurare la letteratura
italiana, ho in testa un pensiero diverso: che la lingua italiana era già nata
prima di Dante, dal dialetto che si parlava nel ducato di Spoleto, dislocato fra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo.
(Per qualcuno il termine ducato di Spoleto sarebbe da sostituire con “regno dei
Franchi”, ma per ora non la posso tirare per le lunghe.)
Questo dialetto nel trattato
di cui parliamo viene scartato per terzo, senza nemmeno una spiegazione, un
motivo più o meno plausibile, come si fa per tutti gli altri, come se fosse il
meno indicato fra i quattordici presi in considerazione.
Ma il ducato di Spoleto
intorno al XII secolo era una entità politica importante, di cui rimane traccia
evidente nei dialetti attuali.
Quando da ragazzo giravo per
il centro Italia per praticare lo sport della bicicletta rimanevo meravigliato
che a Spoleto, a Foligno, a Spello i contadini parlavano come me, che venivo
dalla campagna della valle del Chienti. Mi sorprendeva constatare che c’era più
differenza linguistica fra me e un pescatore di Civitanova, distante circa
dieci chilometri da casa mia, che fra me
e un abitante di Trevi, a cento
chilometri e dalla parte opposta dei Sibillini.
Nel ducato di Spoleto si
poteva muovere senza problemi Pietro di Bernardone dei Moriconi per i suoi
commerci, senza dover pagare gabelle e senza incontrare briganti, che invece
pullulavano al di fuori dei confini del ducato.
Sor Pietro, come fu cresciuto
abbastanza, si portava appresso il figlio per insegnarli il mestiere e le
strade. E veniva qui, in provincia di Macerata e di Fermo, nella Francia da cui
veniva suo padre, che ad Assisi chiamavano “il francese”, cioè Francesco.
Quando Bernardone morì per
sor Pietro fu naturale, come mi ha fatto
notare Gianfranco Baleani, chiamare il suo primogenito con lo stesso
soprannome, anche se lo avevano battezzato come Giovanni.
La lingua madre di san
Francesco era quindi lo stesso dialetto che parlava mio padre, contadino della
Mensa arcivescovile di Fermo, conosciuto come “lu fermà”.
E san Francesco scrisse il
Cantico delle Creature, che è il primo componimento poetico completo della
letteratura italiana, per il quale contribuì quasi sicuramente frà Pacifico, di
San Severino, che prima di entrare nell’ordine dei frati minori era stato “re
dei versi”.
Dalle Marche, o meglio dalla
Francia, veniva la maggior parte dei frati minori. Diceva Carlo Bo: “ San
Francesco è nato ad Assisi, ma il francescanesimo nasce nelle Marche”.
Questi frati che nei capitoli
“delle stuoie”ascoltavano “il Poverello” poi andavano a predicare in tutta la
penisola, e la maggior parte parlava la lingua del ducato di Spoleto. Per
predicare e confessare la gente bisogna capirla e farsi capire.
Questo dialetto per tale
motivo è stato quindi “cardinale”.
Il fenomeno del
francescanesimo come incipit della lingua italiana non può essere ignorato,
come non si può dimenticare che contribuì notevolmente alla vittoria del papato
su Federico II.
Quest’ultimo infatti non
sottovalutò per niente il fenomeno dei frati minori e tramite frate Elia da
Cortona cercò in tutti i modi di portarli dalla sua parte. E frate Elia, che
era nato ad Assisi, detto da Cortona perché ci morì, anche lui era di lingua madre del dialetto di
Spoleto. Ma il papa aveva un’arma che a quei tempi era molto efficace: l’arma
della scomunica. E a quei tempi la misericordia non andava ancora di moda.
Ma questo dialetto è stato
anche “aulico”. Perché era la lingua madre di Federico II , nato a Jesi,
battezzato ad Assisi, allevato a Foligno nei primi tre anni di vita.
Questo grande uomo, “stupor
mundi”, da adulto parlava diverse lingue, ma non dimentichiamoci che la sua
lingua madre era quella del ducato di Spoleto.
Perciò i poeti, che furono
denominati come “scuola siciliana” dallo stesso Dante, alla corte di Federico II dovevano adeguarsi
alla lingua dell’imperatore, non il contrario. Ultimo argomento, (- last but
not least - direbbero oltre Manica), riguarda la curia papale. Se la sua sede
era dalle parti di Urbisaglia, anche i cardinali e il papa, che fra di loro e
nelle funzioni usavano il Latino, per farsi capire dal popolo o dalla perpetua
dovevano usare il dialetto del ducato di Spoleto. Poi dovettero scappare dalla
val di Chienti: erano quasi tutti Ghibellini. Dovette andare a Perugia,
Orvieto, Viterbo, forse anche nella Roma del Lazio, dove erano di più i Guelfi.
Per concludere, il dialetto
del ducato di Spoleto grazie a san Francesco, a Federico II e alla Curia papale
può essere considerato “ cardinale, aulico e curiale”.
Dante arrivò poco meno di un
secolo dopo ed ebbe modo, nel suo esilio, di frequentare anche la Francia
Picena, dove poteva spostarsi senza problemi, anche se le biografie ufficiali
parlano di un fantomatico viaggio del sommo poeta a Parigi.
Oggi il nostro dialetto, che
si parla ad Est e ad Ovest dei Sibillini, viene preso in giro nella Capitale,
nei film, nei teatri, considerato un “parlar burino”.
Ma i burini sono loro, perché
l’Italiano non è nato a Roma e nemmeno a Firenze, ma qui, fra Marche e Umbria. Non
solo perché questo territorio è il baricentro geografico della penisola
italiana, ma anche perché San Francesco quando andava in Francia veniva da noi.
Nelle biografie ufficiali del
Santo viene appena ammessa la sua
presenza ad Ancona, per imbarcarsi per la Terra Santa , ma per la
tradizione dei francescani da noi era di
casa.
La scorsa estate ho ascoltato
a Gubbio una conferenza di uno dei massimi conoscitori viventi della vita e
della spiritualità di san Francesco, il medievista Jacques Dalarun, un francese
che avrebbe voluto essere nato qui, nella terra dei Fioretti.
Avendo scoperto un
manoscritto nuovo, un intermedio fra la vita prima e la vita seconda di Tommaso
da Celano, riteneva di essere vicino alla soluzione della questione francescana,
che qualcuno ha definito “un ginepraio inestricabile”.
Con tutto il rispetto, signor
Dalarun, il ginepraio resterà tale, fino a quando i medievisti continueranno a
scrivere che Pietro di Bernardone si era arricchito commerciando con le regioni
che si trovano nella Francia odierna.
Prima di tutto perché il
tempo è denaro, dicono i commercianti; di tempo ne avrebbe dovuto spendere
parecchio in viaggio. Poi doveva farsi accompagnare da un piccolo esercito ben
armato per non farsi depredare dai numerosi briganti. Poi doveva godere di
chissà quanti lasciapassare per superare indenne le numerose fermate per pagare
le pesanti gabelle. Quando li faceva i
soldi?
San Francesco poteva sì
viaggiare tranquillo: si portava dietro solo gli stracci di cui era vestito! Eppure
anche così subì l’attacco dei predoni.
Come poteva evitarli sor
Pietro di Bernardone dei Moriconi, carico di merce e di monete sonanti?
Spero di non offendere
nessuno, ma trovo che i medievisti spesso
“filtrano il moscerino e
ingoiano il cammello”.
Altra cosa che mi sembra
strana è come non trapeli il minimo incontro del “Poverello“ con i Catari, che
della crociata contro gli Albigesi non ci sia traccia nelle varie biografie del
santo. Sono sicuro che se san Francesco ne fosse stato al corrente
non si sarebbe risparmiato di
ricordare al papa la misericordia di Dio.
Concludendo il discorso
principale, il proto – italiano, nato principalmente dal dialetto del ducato di
Spoleto, nel centro Italia, è diventato cardinale
grazie a san Francesco e ai suoi frati minori, la corte di Federico II lo
ha reso aulico, la curia papale lo ha fatto curiale, infine grazie a Dante è diventato anche illustre.
Se qualcuno pensa che ho
scritto queste righe per l’effetto dei fumi dell’alcool etilico non si
trattenga dall’esternarlo, ma si ricordi che “ in vino veritas”.
Fra questi ci sarà
sicuramente don Carnevale, che non mi ha nascosto per niente la sua
riprovazione, anzi, quando gli ho letto la bozza di questo articolo ho temuto
che mi arrivasse uno sganassone, nonostante fosse seduto nella sua sedia a
rotelle.
La giusta critica di don
Giovanni è principalmente che un discorso del genere uno storico serio non lo
può fare senza citare le fonti. Ma io faccio lo storico solo per hobby, lo
facciano gli storici professionisti. Io non mi posso addentrare nella selva
oscura della bibliografia col rischio di non poterne più uscire, meglio sorvolarla
con un piccolo drone; e inoltre chi è senza peccato scagli la prima pietra, a
cominciare da quelli di Capracotta. Ma soprattutto in Germania, dove da più di
cento anni sono a conoscenza del fatto che Aachen non può essere l’Aquisgrana
carolingia, non possono continuare a dire: “ Le ossa che abbiamo qui nel
sarcofago di Proserpina sono veramente di Carlo Magno ( perché… perché lo
diciamo noi! )”
Nessuno dei giornali italiani
che hanno riportato la cosiddetta notizia, circa un anno fa, ha rilevato il “
non senso”.
Macerata 19 febbraio 2016
Mancini Enzo
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