Eginardo
Nacque verso il 770 d. C. , ma la data è incerta; probabilmente a Seligenstadt, presso Francoforte, non troppo lontano dal monastero di Fulda. In questo monastero ricevette l’istruzione di base e , sicuramente per essersi segnalato per la non comune memoria e per il suo cervello fino, fu inviato alla corte di Aquisgrana. Vi arrivò poco più che ventenne, nello stesso periodo in cui vi giunse Alcuino di York, cioè verso il 792. Alcuino ossia Albino ossia Flacco fu definito da Eginardo:” l’uomo più dotto del suo tempo”. Eginardo fu certamente l’allievo più brillante di Alcuino, ma non certo un personaggio importante alla corte di Carlo Magno. Il maestro lo chiamava amabilmente “Nardulus”, piccolo nardo, scherzando un poco col suo nome e con la sua piccola taglia. Eginardo diventò importante a corte solo con Ludovico il Pio, e anche di più col suo primogenito Lotario. Non era un monaco, nonostante che nello sceneggiato RAI di pochi anni fa lo abbiano fatto vestire di saio già ai tempi di un giovane Carlo Magno, sbagliando sull’abito e sull’età. Eginardo si fece monaco solo quando rimase vedovo della moglie Imma, in età avanzata. Morì quasi settantenne nell’840, lo stesso anno di Ludovico il Pio. Da vedovo e monaco fece ritorno dalle parti dove era nato, facendovi costruire un monastero e una basilica.
Curiosamente Eginardo oggi è più famoso di Alcuino, solo per aver scritto la “Vita Karoli”. Vero è che senza Eginardo oggi Carlo Magno sarebbe stato considerato alla stregua di re Artù. Però Alcuino era di un’altra categoria, una mente enciclopedica, il sottovalutato inventore dell’UNIVERSITA’, il vero padre dell’Europa. Ma su Alcuino mi propongo di approfondire in seguito. Ora vorrei tornare ad Eginardo e a quello che scrive nelle prime pagine della “Vita Karoli”.
Racconta che il fratello maggiore di Pipino il Breve, Carlomanno, stanco delle battaglie e degli impegni di governo del regno dei Franchi, si potrebbe anche ipotizzare per non essere molto in sintonia con l’ambizioso fratello, si ritirò sul monte Soratte, a vita monacale, a poco più di venti Km a Nord del grande raccordo anulare di Roma. Lasciò così spazio a Pipino che di li a poco, con un vero colpo di stato, doveva esautorare Childerico III e farsi incoronare, con la benedizione di papa Stefano II, quale legittimo sovrano del regno Franco. Ma la pace del monastero era frequentemente interrotta da un andirivieni di nobili Franchi, dai quali Carlomanno era considerato molto più importante e popolare di Pipino. Di sicuro in battaglia Carlomanno aveva molto più carisma e seguito del suo mingherlino fratello, passato alla storia come “il Breve”. Quelli di San Claudio oggi lo avrebbero chiamato “Peppe lu Tappu”. Allora Carlomanno, seccato delle visite di questi importuni, se ne andò a Monte Cassino, dove concluse senza più scocciatori la sua esistenza terrena.
Ora ragioniamo. Se Pipino e i Franchi fossero stati dalle parti di Liegi e di Aachen i nobili che andavano da Carlomanno sul monte Soratte avrebbero dovuto viaggiare per un sacco di tempo. Oggi il percorso in autostrada sarebbe di 1.400 Km circa; ma senza autostrada, senza ponti e gallerie il percorso sarebbe più che doppio . Ammesso che riuscissero a fare 50 Km al giorno, che sarebbe una buonissima media per quei tempi, la sola andata avrebbe richiesto quasi due mesi. Si potevano permettere questi signori di stare via da casa quasi quattro mesi solo per rendere omaggio al loro vecchio condottiero? Forse sarà stato allora che è nato il proverbio “chi va a Roma perde la poltrona”? Ma se questi avevano viaggiato per quasi due mesi per arrivare al monte Soratte, si sarebbero scoraggiati di fare due giorni di strada in più per andare a Monte Cassino? Credo proprio di no. Se invece i notabili Franchi partivano dal territorio che oggi è la provincia di Macerata, per andare a Monte Cassino anziché al monte Soratte, avrebbero dovuto impiegare il doppio del tempo di viaggio. Allora sì che si spiega perché Carlomanno poté vivere in santa pace i suoi ultimi anni di vita terrena.
Mancini Enzo Macerata 20 novembre 2020 (in tempi arancioni)