27 febbraio 2016
Nell’articolo
precedente, in cui parlavo della nascita della lingua italiana e della
questione francescana, mi è scappata una piccola gaffe, o grande, se preferite,
riguardo a Fra Pacifico, scrivendo che era di San Severino.
Non posso non
tornare su questo personaggio, che ha un ruolo chiave sia per la nascita
della lingua italiana sia per la questione francescana.
Guglielmo
Divini è nato a Lisciano, sotto colle san Marco e sopra Ascoli Piceno, sembra
nel 1158. Non è stato fatto santo, resta Beato Pacifico da Lisciano.
Il san Pacifico
di san Severino è posteriore, vissuto dal 1653 al 1721, anche lui frate minore,
anche lui, curiosamente, di cognome Divini.
Ma a noi
interesse il Beato Pacifico, quello che a San Severino nel 1212, (o
1213), si convertì a
san
Francesco, letteralmente da un giorno all’altro, come riporta Tommaso da Celano
( Vita seconda, cap. LXXII ) .
Quando aveva 29
anni Guglielmo recitò un carme encomiastico di sua composizione di fronte a
Enrico VI , in visita ad Ascoli, fresco sposo di Costanza d’Altavilla. Il poeta
impressionò tanto bene la coppia regale che se lo portarono in Sicilia, dove
soggiornò fino al 1211. Ma, da cavalier servente, seguiva la regina. La
Gran Costanza,
erede del regno di Sicilia, il 26 dicembre del 1194, nella piazza di Jesi,
dette alla luce Federico II.
Ma ascoltate che
gossip: osserva Benedetto Leopardi di Monte San Pietrangeli, quasi un secolo
fa, che nove mesi prima Enrico VI non era con la moglie, più vecchia di lui di
11 anni, ma in Germania. Costanza stava a Spoleto, con le sue dame e il suo
cavalier servente, Guglielmo Divini.
L’ipotesi
dell’amor galeotto è clamorosa, ma non inverosimile. Il matrimonio era stato
combinato, capolavoro politico ma non affettivo. Questo imperatore era un uomo
crudele: costrinse Costanza ad assistere alla esecuzione con tortura di
Guglielmo Monaco, signore di Castro Giovanni (Enna), a cui fece inchiodare sul capo
una corona di ferro rovente. Enrico VI morì poi in circostanze misteriose, nel 1197,
a soli 32
anni, secondo malelingue avvelenato dalla moglie, ma forse dicevano la verità.
Anche lei morì di
lì a poco, il 27 novembre 1198, lasciando il piccolo Federico sotto la tutela
del papa Innocenzo III.
Nel 1208, quando
Guglielmo Divini aveva 50 anni, Federico II adolescente lo incorona “re
dei versi”, ignaro certamente ( o no, chi può saperlo?) che fosse suo padre.
Alla corte di
Federico II nacque poi la scuola poetica che Dante chiamò “siciliana”.
Ma questi
siciliani da chi impararono l’arte se non dal nostro Guglielmo Divini?
Che poi diventò
fra Pacifico in fretta e furia, a 54 anni: certamente si sarà convertito, ma
quanto sarebbe valsa la sua pelle se gli fosse sfuggito il suo grande segreto?
Quindi fra
Pacifico seguì san Francesco, era presente quando al santo fu donato il monte
della Verna, soprattutto era con lui dal 1223 al 1226.
Il che giustifica
l’ipotesi che il “ Cantico di frate Sole” sia stato composto a quattro mani. Il
“Poverello” era cieco, malato, ignaro di metrica. Nel Cantico lui ci mise
l’ispirazione, fra Pacifico ci mise le parole giuste, in volgare italiano.
E’ curioso che
Francesco Salvatore Attal, autore di una biografia del santo di Assisi fra le
più dettagliate, scriva: “Una vecchia leggenda … vuole che san Francesco
abbia fatto venire fra Pacifico, l’antico re dei versi, per dar forma perfetta
alla metrica del canto, arricchendolo di cadenze musicali. E’ una leggenda
assurda. Fra Pacifico morì nel 1220, mentre si recava in Francia”.
Ma assurdo è
quello che scrive Attal, perché fra Pacifico morì nel 1234, all’età di 76 anni!
Ma non me la
voglio prendere troppo con Attal, che scrive con il dente avvelenato contro
Paul Sabatier, il principale responsabile della nascita della questione
francescana.
Perché anche
Attal, circa novanta anni fa, era convinto che l’Italiano come lingua nasce dai
frati minori di san Francesco.
Riporto
testualmente quello che leggo nella sua biografia di san Francesco d’Assisi,
edita dal Messaggero di S. Antonio, Padova:
“…Ma quando i
fraticelli allargarono la loro cerchia, spingendosi ovunque in Italia, si
impose la necessità di fissare epoche determinate in cui tutti i compagni
potessero ritrovarsi insieme…Così nacquero quelle riunioni periodiche che, con
espressione tolta al linguaggio cavalleresco, furono dette “Capitoli”… Per la
Pentecoste (maggio)…
e per san Michele (29 settembre)…
…L’Italia del
1200 aveva una sua civiltà originale, fastosa, brillante. Le corti degli
imperatori, dei re di Sicilia, dei marchesi d’Este e di Monferrato, le città
lombarde, le grandi repubbliche marinare, Firenze, Roma, celebravano le loro
solennità con feste, giostre, tornei di poesia, da cui uscì quel linguaggio che
Dante chiamerà” illustre, aulico e curiale”( De Vulg. Eloq. I, XVII,1) e che
sarà il linguaggio della Divina Commedia.
A partire dal
1216 si vide ogni anno nel piano di Assisi un’altra solennità caratteristica,
una corte plenaria come non se ne erano mai vedute, differente da tutte le
giostre di amore celebrate fin allora e superiore ad esse di tutta la distanza
che corre fra l’amore umano e il divino”.
Dal momento che
ho citato questo autore, mi si permetta di citare anche un altro passo
significativo di questo libro:
“Nel capitolo
del 1217 dice san Francesco ( Speculum Perfectionis LXV ):
“Fratelli miei
carissimi, a me si conviene essere modello ed esempio di tutti i frati…Adunque…
io eleggo la provincia di Francia ove ha cattolica gente, in specie perché
meglio degli altri cattolici fa grande riverenza al corpo di Cristo, il che mi
è cosa graditissima…”
Come poteva il
Santo parlare della Provenza, dove era in corso la crociata contro gli
Albigesi, i Catari che non erano proprio cattolici, ma dichiaratamente contrari
all’Eucaristia?
Parlava della
Francia del Piceno, parlava di noi.
Mancini Enzo
lunedì 22 febbraio 2016
La nascita della
lingua italiana e la questione francescana
L’impulso a
buttare giù queste due righe mi è venuto dall’essere casualmente incappato in
un blog in cui un siciliano riportava gongolando l’ipotesi di uno studioso che
diceva che l’italiano come lingua è nato in Sicilia, dalla scuola
siciliana fiorita alla corte di Federico II. Non sono d’accordo. Quando è
troppo è troppo!
Perché la
scoperta di Aquisgrana in val di Chienti getta nuova luce anche sulla nascita
del nostro idioma nazionale.
Quando la storia
ufficiale accetterà la tesi di Giovanni Carnevale ed ammetterà che il binomio “
ROMA ET FRANCIA” nell’alto Medioevo era situato nell’attuale Piceno, sarà più
chiaro per tutti anche come ha avuto inizio la nostra lingua italiana.
La dicitura “Roma
et Francia” compare nel famoso, ( si fa per dire), astrolabio carolingio,
conservato nel museo de” l’Istitut du monde Arabe” a Parigi, a un tiro di
schioppo da Notre-Dame, sulla “rive gauche “ della Senna.
Questo
astrolabio, scoperto da Marcel Destombes, rappresenta un rompicapo irrisolto
per i medievisti, che chiudono la questione, come succede spesso in questi
casi, dichiarando l’oggetto un falso. Ma, se ha senso falsificare un documento,
che senso ha falsificare un oggetto, io mi domando.
Questo astrolabio
attesta che quando fu costruito, verso la fine del X secolo, perché i caratteri
utilizzati sono di quel periodo, la Francia era un po’ più a Sud e Roma un po’
più a Nord rispetto alla collocazione attuale.
Ma ora il
discorso che mi interessa sviluppare è la questione della nascita della lingua
italiana, sulla quale circolano anche da parte degli esperti ipotesi
discutibili. Ne esiste una sbilanciata verso Nord, che attribuisce gli albori
della lingua all’incontro fra il Latino parlato e le “chansons” dei trovatori
provenzali; un’altra, sbilanciata a Sud, vuol dare il merito alla scuola
siciliana, quel gruppo di poeti che animavano la vita di corte di Federico II.
Io non sono uno
studioso della lingua né un esperto di glosse e di fonemi, ma mi son fatto
un’idea su come è nata la lingua italiana e cercherò di esporla, appoggiandomi
al noto proverbio: “in medio stat veritas”. E’ vero, ho sbagliato, “ in medio
stat virtus” “et veritas stat in vino”, ma è un errore che ormai fanno in
molti: non facciamone una questione di lana caprina, semmai ne riparliamo in
un’altra occasione.
Nel “ De vulgari
eloquentia” Dante, o chi per lui, ( non è matematico che l’autore della Divina
Commedia abbia scritto anche questo trattato), attesta che ai suoi tempi nella
nostra penisola si potevano distinguere 14 dialetti. Quale fra questi può
assurgere alla nobiltà di lingua? Vengono scartati tutti ma, prima di
concludere, il discorso si interrompe. Sembra che nelle intenzioni dell’autore
il trattato scritto in latino doveva essere di quattro libri, ma si ferma al
secondo, senza una precisa presa di posizione. Siccome per ultimo si parla del
dialetto toscano, si direbbe che sarebbe questo quello più titolato ad essere
elevato al rango di lingua per il sommo poeta.
Posso immaginare
che se Dante avesse completato il “De vulgari eloquentia” alla fine avrebbe
scritto: “L’Italiano l’ho inventato io!”
Credo che Dante,
nella sua boria, fosse cosciente che la sua opera potesse essere considerata
come l’alba della lingua italiana, e sono molti gli italiani che sono di questo
avviso. Non è possibile negare che la lingua volgare con lui diventa
“illustre”. Però, pur riconoscendo l’enorme importanza del sommo poeta
nell’inaugurare la letteratura italiana, ho in testa un pensiero diverso: che
la lingua italiana era già nata prima di Dante, dal dialetto che si parlava nel
ducato di Spoleto, dislocato
fra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. (Per qualcuno il termine ducato di Spoleto
sarebbe da sostituire con “regno dei Franchi”, ma per ora non la posso tirare
per le lunghe.)
Questo dialetto
nel trattato di cui parliamo viene scartato per terzo, senza nemmeno una
spiegazione, un motivo più o meno plausibile, come si fa per tutti gli altri,
come se fosse il meno indicato fra i quattordici presi in considerazione.
Ma il ducato di
Spoleto intorno al XII secolo era una entità politica importante, di cui rimane
traccia evidente nei dialetti attuali.
Quando da ragazzo
giravo per il centro Italia per praticare lo sport della bicicletta rimanevo
meravigliato che a Spoleto, a Foligno, a Spello i contadini parlavano come me,
che venivo dalla campagna della valle del Chienti. Mi sorprendeva constatare
che c’era più differenza linguistica fra me e un pescatore di Civitanova,
distante circa dieci chilometri da casa mia, che fra me e un
abitante di Trevi, a cento chilometri e dalla parte opposta dei Sibillini.
Nel ducato di
Spoleto si poteva muovere senza problemi Pietro di Bernardone dei Moriconi per
i suoi commerci, senza dover pagare gabelle e senza incontrare briganti, che
invece pullulavano al di fuori dei confini del ducato.
Sor Pietro, come
fu cresciuto abbastanza, si portava appresso il figlio per insegnarli il
mestiere e le strade. E veniva qui, in provincia di Macerata e di Fermo, nella
Francia da cui veniva suo padre, che ad Assisi chiamavano “il francese”, cioè
Francesco.
Quando Bernardone
morì per sor Pietro fu naturale, come mi ha fatto notare Gianfranco
Baleani, chiamare il suo primogenito con lo stesso soprannome, anche se lo
avevano battezzato come Giovanni.
La lingua madre
di san Francesco era quindi lo stesso dialetto che parlava mio padre, contadino
della Mensa arcivescovile di Fermo, conosciuto come “lu fermà”.
E san Francesco
scrisse il Cantico delle Creature, che è il primo componimento poetico completo
della letteratura italiana, per il quale contribuì quasi sicuramente frà
Pacifico, di San Severino, che prima di entrare nell’ordine dei frati minori
era stato “re dei versi”.
Dalle Marche, o
meglio dalla Francia, veniva la maggior parte dei frati minori. Diceva Carlo
Bo: “ San Francesco è nato ad Assisi, ma il francescanesimo nasce nelle Marche”.
Questi frati che
nei capitoli “delle stuoie”ascoltavano “il Poverello” poi andavano a predicare
in tutta la penisola, e la maggior parte parlava la lingua del ducato di
Spoleto. Per predicare e confessare la gente bisogna capirla e farsi capire.
Questo dialetto
per tale motivo è stato quindi “cardinale”.
Il fenomeno del
francescanesimo come incipit della lingua italiana non può essere ignorato,
come non si può dimenticare che contribuì notevolmente alla vittoria del papato
su Federico II.
Quest’ultimo
infatti non sottovalutò per niente il fenomeno dei frati minori e tramite frate
Elia da Cortona cercò in tutti i modi di portarli dalla sua parte. E frate
Elia, che era nato ad Assisi, detto da Cortona perché ci morì, anche lui
era di lingua madre del dialetto di Spoleto. Ma il papa aveva un’arma che a
quei tempi era molto efficace: l’arma della scomunica. E a quei tempi la
misericordia non andava ancora di moda.
Ma questo
dialetto è stato anche “aulico”. Perché era la lingua madre di Federico II ,
nato a Jesi, battezzato ad Assisi, allevato a Foligno nei primi tre anni
di vita.
Questo grande
uomo, “stupor mundi”, da adulto parlava diverse lingue, ma non dimentichiamoci
che la sua lingua madre era quella del ducato di Spoleto.
Perciò i poeti,
che furono denominati come “scuola siciliana” dallo stesso Dante, alla
corte di Federico II dovevano adeguarsi alla lingua dell’imperatore, non il
contrario. Ultimo argomento, (- last but not least - direbbero oltre Manica),
riguarda la curia papale. Se la sua sede era dalle parti di Urbisaglia, anche i
cardinali e il papa, che fra di loro e nelle funzioni usavano il Latino, per
farsi capire dal popolo o dalla perpetua dovevano usare il dialetto del ducato
di Spoleto. Poi dovettero scappare dalla val di Chienti: erano quasi tutti
Ghibellini. Dovette andare a Perugia, Orvieto, Viterbo, forse anche nella Roma
del Lazio, dove erano di più i Guelfi.
Per concludere,
il dialetto del ducato di Spoleto grazie a san Francesco, a Federico II e alla
Curia papale può essere considerato “ cardinale, aulico e curiale”.
Dante arrivò poco
meno di un secolo dopo ed ebbe modo, nel suo esilio, di frequentare anche la
Francia Picena, dove poteva spostarsi senza problemi, anche se le biografie
ufficiali parlano di un fantomatico viaggio del sommo poeta a Parigi.
Oggi il nostro
dialetto, che si parla ad Est e ad Ovest dei Sibillini, viene preso in giro
nella Capitale, nei film, nei teatri, considerato un “parlar burino”.
Ma i burini sono
loro, perché l’Italiano non è nato a Roma e nemmeno a Firenze, ma qui, fra
Marche e Umbria. Non solo perché questo territorio è il baricentro geografico
della penisola italiana, ma anche perché San Francesco quando andava in Francia
veniva da noi.
Nelle biografie
ufficiali del Santo viene appena ammessa la sua presenza ad Ancona,
per imbarcarsi per la
Terra Santa, ma per la tradizione dei francescani da noi
era di casa.
La scorsa estate
ho ascoltato a Gubbio una conferenza di uno dei massimi conoscitori viventi
della vita e della spiritualità di san Francesco, il medievista Jacques
Dalarun, un francese che avrebbe voluto essere nato qui, nella terra dei
Fioretti.
Avendo scoperto
un manoscritto nuovo, un intermedio fra la vita prima e la vita seconda di
Tommaso da Celano, riteneva di essere vicino alla soluzione della questione
francescana, che qualcuno ha definito “un ginepraio inestricabile”.
Con tutto il rispetto,
signor Dalarun, il ginepraio resterà tale, fino a quando i medievisti
continueranno a scrivere che Pietro di Bernardone si era arricchito
commerciando con le regioni che si trovano nella Francia odierna.
Prima di tutto
perché il tempo è denaro, dicono i commercianti; di tempo ne avrebbe dovuto
spendere parecchio in viaggio. Poi doveva farsi accompagnare da un piccolo
esercito ben armato per non farsi depredare dai numerosi briganti. Poi doveva
godere di chissà quanti lasciapassare per superare indenne le numerose fermate
per pagare le pesanti gabelle. Quando li faceva i soldi?
San Francesco
poteva sì viaggiare tranquillo: si portava dietro solo gli stracci di cui
era vestito! Eppure anche così subì l’attacco dei predoni.
Come poteva
evitarli sor Pietro di Bernardone dei Moriconi, carico di merce e di monete
sonanti?
Spero di non
offendere nessuno, ma trovo che i medievisti spesso
“filtrano il
moscerino e ingoiano il cammello”.
Altra cosa che mi
sembra strana è come non trapeli il minimo incontro del “Poverello“ con i
Catari, che della crociata contro gli Albigesi non ci sia traccia nelle varie
biografie del santo. Sono sicuro che se san Francesco ne fosse stato al corrente
non si sarebbe
risparmiato di ricordare al papa la misericordiadi
Dio.
Concludendo il
discorso principale, il proto – italiano, nato principalmente dal dialetto del
ducato di Spoleto, nel centro Italia, è diventato cardinale grazie a san Francesco e ai suoi frati
minori, la corte di Federico II lo ha reso aulico, la curia papale lo ha
fatto curiale, infine grazie a Dante è diventato
ancheillustre.
Se qualcuno pensa
che ho scritto queste righe per l’effetto dei fumi dell’alcool etilico non si
trattenga dall’esternarlo, ma si ricordi che“ in vino veritas”.
Fra questi ci
sarà sicuramente don Carnevale, che non mi ha nascosto per niente la sua
riprovazione, anzi, quando gli ho letto la bozza di questo articolo ho temuto
che mi arrivasse uno sganassone, nonostante fosse seduto nella sua sedia a
rotelle.
La giusta critica
di don Giovanni è principalmente che un discorso del genere uno storico serio
non lo può fare senza citare le fonti. Ma io faccio lo storico solo per hobby,
lo facciano gli storici professionisti. Io non mi posso addentrare nella selva
oscura della bibliografia col rischio di non poterne più uscire, meglio
sorvolarla con un piccolo drone; e inoltre chi è senza peccato scagli la prima
pietra, a cominciare da quelli di Capracotta. Ma soprattutto in Germania, dove
da più di cento anni sono a conoscenza del fatto che Aachen non può essere
l’Aquisgrana carolingia, non possono continuare a dire: “ Le ossa che abbiamo
qui nel sarcofago di Proserpina sono veramente di Carlo Magno ( perché… perché
lo diciamo noi! )”
Nessuno dei
giornali italiani che hanno riportato la cosiddetta notizia, circa un anno fa,
ha rilevato il “ non senso”.
Macerata 19 febbraio 2016 Mancini Enzo