Riprendiamo la notizia relativa
all’elefante di Carlo Magno, per presentare quanto gentilmente ci viene
riferito e concesso dal prof. Enzo Mancini. Dal suo libro “ Aquisgrana
Restituta” , nel capitolo dedicato all’elefante, troviamo la notizia che,
qualche decennio fa nel corso della trivellazione di un pozzo, in località San
Claudio, furono portati alla luce dei denti di un animale. Gli operai addetti
alla trivellazione non esitarono ad attribuirli ad un “ enorme animalaccio”. Al
nascere della teoria di Aquisgrana in Val di Chienti, essendo andati perduti
tali resti, il prof Mancini mi dice di aver accompagnato personalmente
l’operaio, che aveva ritrovato questi strani denti, al museo di storia naturale
di Camerino, con lo scopo di farsi
indicare, tra i reperti esposti, quelli che più somigliavano a quelli venuti
alla luce dallo scavo. E’ da questa indagine che si comprese che essi erano
straordinariamente identici a quelli di un elefante.
Riportiamo ora la copertina del libro del prof. Enzo Mancini, le pagine
relative al capitolo dell’elefante e una recentissima relazione che il
prof. Mancini cortesemente ci ha
espressamente preparato per il nostro sito.
Abul Abbas (analisi del prof. Enzo Mancini)
In data 802 d.C. alla corte di Aquisgrana pervenne, dopo un viaggio di circa quattro anni, un elefante, scortato dall’ebreo Isacco, dono del capo abasside Harun Al Rashid, califfo di Bagdad, più famoso in letteratura come il signore delle mille e una notte.
Riguardo a questo animale ormai storia e leggenda si intrecciano in modo inestricabile, tanto che quello che si può prendere per buono è solo la frase precedente, perché attestata dal biografo ufficiale di Carlo Magno, Eginardo. Che cita l’elefante ma non il suo mahout. Che poi si chiamasse Isacco o Abramo, non è decisivo in questo contesto. Cerco di spiegarmi meglio.
Fra gli storici la più diffusa versione è che questo elefante arrivò per mare a Porto Venere, in Liguria, da lì fu portato a Vercelli dove, con l’avvento della stagione propizia, gli furono fatte attraversare le Alpi.
Ma c’è chi scrive, senza purtroppo citare le fonti, che detto pachiderma sbarcò a Pisa, per essere portato a Pavia. Ma, per evitare di dover ripetere la rischiosa impresa di Annibale, fu di nuovo imbarcato in Liguria per approdare a Marsiglia. Da là non era poi così difficile farlo giungere ad Aix- la - Chapelle, oltre le Ardenne, risalendo la valle del Rodano.
Nel mio sforzo di trovare le fonti documentali ho letto negli “ Annales qui dicuntur Einhardii” che l’elefante morì nell’810, dopo aver attraversato il Reno, in località Lippenheim. Ma questo brano riguardante l’elefante è una evidente interpolazione, evidenziata e sottolineata nella prima edizione degli MGH, non più nella più recente versione.
Ora io mi domando: come ci si può fidare completamente di questi “Annales”, pieni di cancellature, interpolazioni, correzioni, scritti e riscritti dopo molti anni dai fatti, in latino ma con i toponimi in perfetto tedesco, località comparse tre, quattro, cinque… secoli dopo. Come mi meraviglia che gli storici tedeschi, che sanno da più di cento anni che Aachen non è l’Aquisgrana carolingia, continuino a spacciarla per tale senza fare una piega. Ma dopo lo scandalo della Volkswagen mi meraviglio di meno.
E mi viene in mente un pensiero strampalato: non potrebbe succedere fra mille e più anni, speriamo di più, se ci fossero guerre atomiche, che gli storici futuri siano costretti a ricavare la storia del Nazismo dalle vignette di Sturmtruppen?
Questa considerazione soprattutto per i tanti sapientoni che sul web fanno commenti impropri, misti a grasse risate, al sentire che c’è qualcuno che vuol riscrivere la storia di Carlo Magno. Dice bene Umberto Eco che Internet ha posto sullo stesso piano il premio Nobel con lo scemo del villaggio.
Tornando al nostro pachiderma, che sia sopravvissuto allo stress di quattro anni di viaggio e a otto inverni della Westfalia a me pare poco credibile. Nella “Storia d’Italia” di Montanelli - Gervaso si legge che l’elefante non morì di polmonite, ma per aver mangiato troppo foraggio fresco, fornitogli dalle stesse mani dell’imperatore, che per il dispiacere proclamò addirittura una giornata di lutto nazionale. Che l’elefante era asiatico lo sapevo già da tempo: quello africano non è addomesticabile.
Che era anche albino l’ho scoperto solo tre anni fa, dopo aver letto un articolo sul giornale locale “la Rucola”, dell’aprile 2012. Incuriosito, ho cercato in rete notizie su questa immagine: un elefante bianco, con piccole orecchie e privo di zanne, che sul groppone porta una specie di castello. Non è difficile, io credo, individuare in questo castello la fisionomia della chiesa di san Claudio al Chienti, come doveva essere quando, oltre alle due torri cilindriche, possedeva ancora la cupola centrale. Non è difficile soprattutto per chi nei paraggi di san Claudio ci è vissuto parecchi anni: altri possono avere opinioni diverse.
Questa immagine è di un affresco che ora è conservato al museo del Prado di Madrid, ma che ha una lunga storia. Proviene dall’eremo mozarabico di san Baudelio de Berlanga, nella provincia di Soria. L’edificio si trova in una zona desertica dell’alta valle del Duero. Fu riscoperto nel 1917, un po’ come san Claudio, ed oggi, dopo essere stato per anni adibito a stalla per le pecore, è diventato monumento nazionale per gli Spagnoli. Essendo di proprietà privata molti degli affreschi furono venduti, fra cui quello che ci interessa, sparpagliandosi per vari musei degli Stati Uniti. Nel 1957 la Spagna ne tornò in possesso, ma non li rimise in loco, ma nella capitale. E che l’elefante albino raffiguri Abul Abbas, donato a Carlo Magno dal califfo di Bagdad, lo hanno detto gli Spagnoli, e non ci sono ragioni per dubitarne. La presenza dell’affresco nella “Iglesia de san Baudelio”, definita anche come “ cappella Sistina dell’arte mozarabica”, sarebbe dovuta al fatto che nel medioevo l’elefante albino sarebbe assurto a simbolo mitico dell’ideale di purezza e castità.
Noi aggiungiamo che, se l’elefante è Abul Abbas, quello sul groppone non è un castello, ma l’Aula Aquensis, la cappella Palatina di Aquisgrana, cioè l’abbazia di san Claudio al Chienti.
Una riflessione sul viaggio marittimo di Abul Abbas. I messaggeri che Carlo Magno inviava in Grecia e in Asia minore viaggiavano in Adriatico: “ille gurgitulus” lo definiva l’imperatore.
Perché Isacco doveva andare sul Tirreno? Che poi era area sotto controllo omayade, in quel periodo in contrasto con gli Abassidi di Bagdad. L’avvento degli Abassidi aveva portato anche ad un periodo di pace fra Bagdad e Costantinopoli. Perché Isacco, uomo giudizioso, doveva andare a percorrere un’area sotto influenza nemica e infestata dai pirati saraceni nordafricani? Ma soprattutto, se Isacco aveva accompagnato altre ambascerie carolingie dirette in Grecia e in Asia minore, perché per trasportare un carico prezioso e pesante doveva scegliere una strada più lunga e più insicura?
Altra riflessione: ai tempi dell’impero Romano il porto di Cupra Marittima era importante. Il tempio della dea Cupra era stato restaurato dall’imperatore Adriano. Importante lo doveva essere anche nell’VIII secolo. E Cupra per i Romani era la dea Bona, Afrodite Cipria, Venere per i Latini. Vuoi vedere che Isacco scaricò l’elefante a Cupra Marittima e che Abul Abbas ha attraversato al massimo il Reno che scorre in Romagna? L’ipotesi può sembrare frutto di troppo fervida fantasia?
Ma che ne direste se all’ombra delle torri cilindriche di san Claudio si trovasse lo scheletro di un elefante asiatico con le zanne poco sviluppate?
Io nutro buone speranze in proposito.