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venerdì 28 luglio 2023
Abul Abbas, è il nome dell'elefante donato del califfo abasside Harun Al Rashid a Carlo Magno. (Da Enzo Mancini: parte seconda)
giovedì 27 luglio 2023
Abul Abbas, è il nome dell'elefante donato del califfo abasside Harun Al Rashid a Carlo Magno. (parte prima)
Abul
Abbas
In data 802 d. C. alla corte di Aquisgrana pervenne, dopo
un lungo viaggio di circa quattro anni, un elefante, scortato
dall' ebreo lsacco, il suo mahout, il suo conduttore e custode.
Era un dono del califfo abasside Harun Al Rashid, più fa-
moso in letteratura come "il signore delle mille e una notte". Lo
attesta il biografo ufficiale di Carlo Magno, Eginardo.
Scrivono gli storici che questo animale esotico arrivò per
mare a Porto Venere, in Liguria. Da lì fu portato a Vercelli per
poi fargli attraversare le Alpi. Ma c'è anche chi scrive che detto pachider-
ma sbarcò a Pisa per poi essere portato a Pavia. Però per evitargli il valico
delle Alpi fu di nuovo imbarcato in Liguria per riprendere la terraferma a Marsiglia
Da lì, risalendo la valle del Ro-
dano, avrebbe raggiunto Aix la Cha-
pelle senza eccessive difficoltà.
Negli "annales qui dicuntur Ein-
hardii" si legge che l'elefante morì
nell' 881 , dopo aver attraversato il
Reno, in località Lippenheim. Ma
questo brano riguardante l'elefante è
una
evidente interpolazione, ammessa CafijJò Hàriin al-Rashid
dai curatori stessi degli MGH. Di questi annali, pieni di cancellature, interpolazioni, toponimi in tede-
sco, correzioni, abrasioni ... io non mi fiderei.
venerdì 14 luglio 2023
Pubblico altri stralci della tesi del Prof. Giovanni Carnevale, per permettere a coloro che lo criticano/insultano di esprimere la loro saccenza.
Dal libro del Prof.
G I O V A
N N I CARNEVALE
La scoperta di
AQUISGRANA
in VAL DI
CHIENTI
DRAGHI
PERSIANI E PALMETTE SASSANIDI A CINGOLI (Mc) NEL
PORTALE
DI S. ESUPERANZIO
La primitiva arte islamica, dopo la rapida conquista
delle terre orientali dell’Impero bizantino e di quelle dell’Impero sassanide,
attinse largamente all’arte delle nuove province annesse all’Islam.
Presso gli artisti omayyadi, a seconda della loro
provenienza, a volte troviamo prevalenti i motivi sassanidi, a volte quelli
della tarda romanità. In genere essi preferiscono
motivi geometrici o
naturalistici: complessi meandri e intrecci di figure geometriche, palmette
sassanidi, girali di grappoli e foglie di vite, uccelli, animali.
Solo di rado si ricorse a
figure umane.
L’arte omayyade – come del resto tutta la successiva arte
islamica – fu essenzialmente decorativa e forse anche per questo fece largo uso
dello stucco.
Il portale di S. Esuperanzio a Cingoli (Mc), pur
risalendo alla fase del Romanico piceno, ripropone in assoluta purezza
imitativa motivi persiani o comunque orientali: draghi e palmette sassanidi,
girali di vite. Segno evidente che in loco erano ancora presenti modelli risalenti
alla Rinascenza carolingia.
Nei fregi esterno e interno del portale di S. Esuperanzio
la decorazione si risolve nella ripetizione standard di motivi a palmette
sassanidi, ripetuti in serie fino a costituire due fregi ininterrotti. Il
fregio centrale fra i due si fonda sullo stesso procedimento tecnico, solo che
il motivo standard di grappoli e foglie di vite viene riproposto a facce
alternatamente invertite, col risultato di conferire più vivace varietà
all’insieme del fregio.
Il fregio esterno delle palmette inizia e termina con le
raffigurazioni di due
identici draghi, di
ascendenza sassanide, anch’essi riprodotti a facce rispettivamente
invertite.
Mentre nel portale di Fermo la raffigurazione del drago è
unica e abbinata a quella dell’ibis – simbolo in Persia del potere imperiale e
allusivo nel Piceno al potere imperiale di Carlo Magno – nel portale di Cingoli
i due draghi hanno ormai valore puramente esornativo. Né poteva essere
altrimenti alla fine del sec. XIII, a distanza di quasi mezzo millennio
dall’epoca di Carlo Magno.
I due attuali montanti con alla base i draghi persiani
potrebbero essere stati in origine architravi di un edificio carolingio,
reimpiegati e trasformati. I due draghi sono, infatti, in posizione verticale,
innaturale, coi due arti non verso terra ma brancolanti nel vuoto.
Anche la tecnica di esecuzione, se paragonata ai sovrastanti motivi ornamentali, è decisamente diversa.
lunedì 10 luglio 2023
LA "SCUOLA SICILIANA" di Federico II, è veramente nata in Sicilia?
Dall'ultimo libro del Prof. Enzo Mancini "LA BARBA FIORITA", riporto la seguente analisi su questo argomento, dagli storici accettato per "fede".
L'origine della lingua italiana
Ho letto casualmente il blog di un
siculo che gongolando
riportava l'ipotesi di un linguista: "L'italiano come lingua è na-
to in Sicilia, dalla scuola siciliana fiorita alla corte di Federico
II a Palermo". Non sono d'accordo; quando è troppo è troppo.
Perché la scoperta di Aquisgrana in val di Chienti getta nuova
luce anche sulla nascita del nostro idioma. Quando la storia uf-
ficiale accetterà la tesi del professor Carnevale ed ammetterà
che il binomio "Roma et Francia" nel medioevo era situato
nell'attuale Piceno, sarà più chiaro per tutti anche come ha avu-
to inizio la lingua italiana. Naturalmente intendo la lingua che
ha usato Dante nella "Divina Commedia", perché una lingua
viva evolve continuamente. lo non sono un linguista e sarà dif-
ficile che potrò diventarlo, ma anch'io mi sono fatto un'idea su
come è nato l'italiano, anche se non piacerà molto ai blogger
siciliani.
C'è chi dice che sia nato
dall'incontro del Latino parlato
con le "Chansons" dei trovatori provenzali, ma l'ipotesi è trop-
po sbilanciata a Nord. C'è chi dice, come detto sopra, che sia
nato a Palermo, ma l'ipotesi è troppo sbilanciata a Sud.
Se è vero che "in medio stat
virtus" il posto più probabile
sta da noi, in quello che nel medioevo era chiamato "Ducato di
Spoleto".
Nel "De vulgari
eloquentia" Dante scrive che ai suoi tempi
nella nostra penisola si potevano distinguere 14 dialetti: si chie-
deva quale poteva assurgere alla nobiltà di lingua. Il trattato,
scritto in latino, doveva essere di quattro libri, ma ne abbiamo
solo due.
Dei 14 dialetti a Dante non ne va
bene nessuno, ma dato
che per ultimo parla del dialetto toscano, si potrebbe pensare
che avrebbe scelto questo come il male minore. Di certo non si
può negare che con Dante la lingua volgare diventa illustre pe-
rò, pur riconoscendo l'importanza del sommo poeta
nell'inaugurare la letteratura italiana, io penso che la lingua ita-
liana era nata prima di Dante, dal dialetto che si parlava nel du-
cato di Spoleto, dislocato fra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo
e adiacente alla Toscana. Dante non poteva rendersene conto,
anche perché il parto è stato lungo e laborioso e non del tutto
completato durante la sua vita.
Nel ducato di Spoleto viaggiava
senza problemi Pietro di
Bemardone dei Moriconi per i suoi commerci, senza pagare
gabelle e senza incontrare briganti. E si portava dietro il piccolo
Giovanni per insegnargli le strade e il mestiere. E veniva nel
maceratese e nel fermano, nella Francia da cui veniva il padre
Bernardone, che ad Assisi chiamavano "il francese", cioè
francesco. Quando Bernardone morì per sor Pietro fu naturale
chiamare il suo primogenito col soprannome del nonno.
In seguito San Francesco scrisse il "Cantico delle Crea-
ture", che è il primo componimento completo della lettera-
tura italiana. Alla sua composizione contribuì sicuramente
frà Pacifico, che prima di farsi frate era stato "re dei
versi".
Dalle Marche, o meglio dalla Francia Picena, veniva la
maggior parte dei frati minori.
Questi frati che nei capitoli "delle stuoie" ascoltavano "il
Poverello" poi andavano a predicare in tutta la penisola; e la
maggior parte di loro parlava la lingua del ducato di Spoleto.
In questa
maniera questo dialetto è diventato "cardinale".
Il fenomeno del francescanesimo come incipit della lin-
gua italiana non può essere ignorato,come non si può ignora-
re che contribuì non poco alla vittoria del papato su Federico
II, alla vittoria dei guelfi sui ghibellini.
Infatti Federico II cercò di portare dalla sua parte i
frati minori, tramite frate Elia da Cortona, ma il papa possedeva
un'arma a quei tempi molto efficace: la scomunica. Ricordo per
inciso che frate Elia era di Assisi, anche lui del ducato di Spole-
to. A Cortona visse gli ultimi giomi della sua vita. Federico II,
imperatore e spirito libero, poteva fare spallucce alla scomuni-
ca, un credente come frate Elia no. E la misericordia del papa
attuale non andava ancora di moda.
Il dialetto di Spoleto è stato
anche "aulico" perché era la
lingua madre di Federico II, nato a Jesi, battezzato ad Assisi
nella stessa chiesa dove era stato battezzato San Francesco, cre-
sciuto nei primi anni a Foligno. Lo "stupor niundi", che da a-
dulto parlava diverse lingue, aveva come madre lingua il dialet-
to del ducato di Spoleto. Perciò i poeti che furono denominati
come "scuola siciliana" da Dante stesso, alla corte di
Federico
II dovevano adeguarsi alla lingua dell'imperatore; non poteva
essere il contrario.
Infine non ci dimentichiamo della
curia papale. Se la sua
sede, come ricostruisce don Carnevale, era fra Corridonia e Ur-
bisaglia, anche papi e cardinali dovevano usare il dialetto del
ducato di Spoleto per farsi capire dal popolo o dalla perpetua.
Non potevano usare solo il Latino. Fu cosi che questo dialetto
poté diventare anche "curìale",
Concludendo, grazie a San
Francesco, a Federico II, alla
curia papale il dialetto che si parlava da noi poté diventare
"cardinale, aulico e curiale".
Risciacquato in Arno, grazie a
Dante Alighieri diventò an-
che "illustre".
Dante Alighieri arrivò poco dopo San Francesco e Federico
II ed ebbe modo, nel suo esilio, di frequentare la Francia Picena,
dove poteva spostarsi senza problemi, anche se le biografie
ufficiali non lo dicono.
Neanche San Francesco secondo le biografie ufficiali frequentò
molto le Marche, ma per la tradizione locale San Francesco da noi
era di casa; quando andava in Francia, quando andava a Roma, veniva da noi.
Nell'agosto 2015 ho ascoltato a
Gubbio il medievista Jac-
ques Dalarun affermare di essere vicino alla soluzione della
questione francescana, definita da Chiara Frugoni "un ginepraio inestricabile".
Ma credo che il ginepraio resterà tale finché i
medievisti continueranno a scrivere che il padre di San France-
sco si era arricchito commerciando con la Francia odierna.
I commercianti
sanno benissimo che il tempo è denaro. Sor
Pietro di tempo ne doveva spendere parecchio per arrivare via
terra alla foce del Rodano. Poi doveva farsi accompagnare da
un piccolo esercito per non farsi depredare dai briganti. Poi do-
veva pagare tante gabelle. Quando li faceva i soldi? San Fran-
cesco si che poteva viaggiare tranquillo: si portava dietro solo
gli stracci di cui era vestito. Eppure anche così sulla strada fra
Gubbio e Assisi subì l'attacco di predoni. Come poteva evitarli
sor Pietro di Bernardone dei Moriconi, carico di merce o di
monete sonanti? Altro punto che mi suona strano è come non
trapeli un incontro - scontro del "Poverello" con i Catari. Eppu-
re la crociata contro gli Albigesi durò dal 1209 al 1229, con-
temporanea e oltre la vita del santo. Sono sicuro che San Fran-
cesco, se ne fosse stato al corrente, non si sarebbe fatto scrupoli
di ricordare ad Innocenzo III e
ad Onorio III la misericordia
di
Dio.
Ma torniamo alla origine della
lingua italiana, che forse ho
svicolato un poco. Quando esposi a don Carnevale le mie idee
sull'origine della nostra lingua non mi nascose la sua riprova-
zione, anzi un attimo pensai che mi arrivasse uno sganassone,
nonostante fosse già costretto alla sedia a rotelle. Don Giovanni
giustamente osservava che questi discorsi non li può fare uno
storico serio, senza prove documentali. Però io faccio lo storico
per hobby, potrò anche uscire con qualche sparata. Ne fanno
molte di più gli storici patentati.
venerdì 7 luglio 2023
Kirbat al Mafjar: Informazioni sul Palazzo di Hisham (Volutamente ignorato dagli archeologi e dagli storici, perché il suo Frigidarium è il prototipo di San Claudio)
Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera.
La finestra rotonda che caratterizza il Palazzo di Hisham. (E’ il prototipo dei “rosoni”?)
Il Palazzo di Hishām (in arabo: خربة المفجر, Khirbat al-Mafjar, in ebraico: ח'רבת
אל-מפג'ר) è un complesso residenziale invernale dei califfi omayyadi,
risalente all'VIII secolo d.C., sito a circa cinque chilometri a nord
della città di Gerico, del quale rimangono oggi solo alcune rovine.
Costruzione
Il palazzo fu eretto tra il 743 ed il 744 a cura di al-Walid II ibn Yazid II,[1] nipote
e successore del califfo Hisham ibn 'Abd al-Malik (691 – 743),
che regnò dal 723 fino
alla morte.
Esso fu eretto sul modello delle terme romane e
fu decorato con mosaici e stucchi.[2]
Colonne dalla corte del Palazzo di Hisham
Il complesso comprende un palazzo, un cortile
pavimentato, un ambiente per i bagni,
una moschea,
un cortile con fontana, un giardino di 60 ettari contenente piante, animali,
mosaici e decorazioni di elevato livello.[3]
Il palazzo stesso era un ampio edificio quadrato con
un'entrata monumentale e stanze su due piani circostanti un lungo porticato.[4][5]
Un sofisticato sistema di tubazioni sotterranee
forniva acqua calda (una parte del sistema esiste ancora). La zona destinata ai
bagni veniva utilizzata anche come sala per le udienze e per i banchetti.[6] L'architettura
della sala per I bagni e la Fontana contiene alcuni esempi delle tecniche tardo
antiche e classiche di costruzione ignote in altri posti.[4]
Scavi recenti hanno portato in luce laboratori e
magazzini che confermano l'appartenenza del palazzo al periodo degli omayyadi.[7]
Elemento caratteristico ed emblema del Palazzo è una
finestra, probabilmente crollata a causa del terremoto, ricostruita e sorretta
da un apposito muretto in mattoni. Si tratta di una finestra a forma rotonda:
una corona circolare in laterizio nella quale è inscritta una rosetta esalobata
con al centro un foro a sezione circolare: pare[8] che
sia stata questa finestra, la cui forma divenne nota in Europa grazie ai crociati,
ad ispirare la forma dei rosoni che ornano le facciate di molte
cattedrali gotiche europee.
Mosaici
Mosaici nella sala delle udienze, sita nella zona termale del palazzo
Nell'angolo destro dei bagni c'è un piccolo locale
riservato al principe. In esso stava un delizioso e misterioso pannello in
mosaico. Il suo disegno è un grande albero sotto il quale si vede, sul lato
destro, un leone attaccare
un cervo mentre
sul sinistro due cervi pascolano tranquillamente. L'interpretazione di questa
raffigurazione non è univoca. Alcuni sostengono che probabilmente essa
rappresenta il buono ed il cattivo governo, mentre altri lo spiegano sostenendo
che il leone rappresenta il principe ed i cervi le donne del suo harem. Quest'ultima
interpretazione si fonda sull'osservazione che i cervi paiono tranquilli e per
nulla intimiditi dalla presenza del leone. Migliaia
di frammenti sono immagazzinati nel Museo Rockfeller a Gerusalemme ma
pochi hanno potuto studiarli.[4]
Gli stucchi che mostrano dipinti di donne seminude
sono unici nell'arte islamica[2] e
le decorazioni per tutto il palazzo che superano in sontuosità le equivalenti
romane vengono considerate come la dimostrazione della natura poco religiosa
degli Omayyadi.[9]
Molti dettagli del palazzo sono ora noti agli storici
grazie agli scavi ed alla ricostruzione della disposizione fatta da Robert
Hamilton.[10]
Il palazzo fu
distrutto da un terremoto nel 747.[11]