venerdì 28 luglio 2023

Abul Abbas, è il nome dell'elefante donato del califfo abasside Harun Al Rashid a Carlo Magno. (Da Enzo Mancini: parte seconda)



Mi meraviglia che invece gli storici, tedeschi e non, li prendano per oro colato. Ma sanno anche dal 1913, cioè da una certa pubblicazione di Alfons Dopsch, che Aachen non può essere l'Aquisgrana carolingia, e continuano a spacciarla per tale senza fare una
piega. Però dopo il "Diesel
Gate" della Volkswagen mi
meraviglia di meno. Mi spiego. Gli autori del congegno
fraudolento applicato ai Suv
della casa automobilistica te-

desca erano tutti ingegneri
laureati ad Aachen.

Ma torniamo al nostro pachiderma. Che sia sopravvissuto a otto inverni della Westfalia a me pare poco credibile. Nella "storia d'Italia" di Montanelli e Gervaso si legge che l'elefante non morì di freddo ma

per aver mangiato troppo foraggio fresco, fornito gli dalle stesse
mani dell'imperatore. Dal dispiacere che ne ebbe fece indire
addirittura una giornata di lutto,

Che l'elefante era asiatico lo sapevo da tempo: quello afri-
cano non è addomesticabile. Che era albino l'ho scoperto da
poco. L'immagine riportata viene da un affresco che ora è con-
servato al museo del Prado di Madrid, ma ha una storia lunga.
Proviene dall' eremo mozarabico di San Baudelio de Berlanga,
nella provincia di Soria. Fu riscoperto nel 1917, dopo essere
stato adibito a stalla per pecore. Ora è diventato un monumento
nazionale. Essendo proprietà privata gli affreschi furono vendu-
ti a musei degli Stati Uniti.

Nel 1957 la Spagna ne tomò in possesso, lasciandoli al
museo della capitale. Che l'elefante albino raffiguri Abul Ab-
bas lo hanno detto gli Spagnoli, che avranno le loro ragioni. La
presenza di un elefante albino raffigurato in una chiesa è dovuta
al fatto che nel medioevo era un simbolo di purezza e castità.
Ma se si tratta di Abul Abbas l'edificio che ha sul groppone
non è un castello, ma l'aula Aquensis, la cappella palatina di
Aquisgrana, cioè l'abbazia di San Claudio al Chienti nel suo
aspetto originale, con due torri laterali e una cupola centrale.
Una riflessione sul viaggio dell' elefante dal medio oriente ad
Aquisgrana. I messaggeri che Carlo Magno inviava in Asia mi-
nore viaggiavano in Adriatico: "ille gurgitulus" lo definiva.
Perché il buon Isacco doveva passare per il Tirreno, in quel pe-
riodo sotto controllo Omayade di Al Andaluz, in contrasto con
gli Abassidi di Bagdad? E se non c'erano gli Omayadi c'erano i
pirati saraceni nordafricani. Perché Isacco, che era un uomo
giudizioso, per trasportare un carico prezioso e pesante avrebbe
dovuto scegliere una strada più lunga e più insicura?

In Adriatico ai tempi dei Romani c'era un "Portus Veneris"
a Cupra Marittima. Cupra era la dea Bona, Afrodite Cipria, la
Venere dei Latini. Meno di 100 Km più a Sud, alla foce del
fiume Sangro, esiste un "Portus V eneris" attestato da antichi
documenti, che alla fine dell 'VIII secolo poteva far parte del
territorio carolingio. Meno di 100 Km più a Nord c'è Ancona,
che aveva un tempio di Venere adiacente all'arco di Traiano.

Insomma in Adriatico ci sono abbastanza porti di Vene re sui
quali poteva approdare comodamente Abul Abbas, senza dover
andare nei paraggi di Genova. Se lo avessero portato realmente
in Liguria sarebbe da matti: poteva andare direttamente a Marsi-
glia senza tanti giri inutili. Chissà che Abul Abbas non riemerga
dal sottosuolo di San Claudio? lo ci spero, perché mio zio mi
raccontò da piccolo che aveva trovato i resti di un "animalacciu"
. scavando un pozzo, e non era riuscito a capire che animale fosse. 

Quando nel 1994 mi venne in mente che aveva potuto tro-
vare lo scheletro di un elefante mio zio era morto. Ma era vivo
quello che lavorava con lui: mi disse che se fossi arrivato tre
mesi prima mi avrebbe dato un dente di quell'animale, che ave-
va dato non ricordava a chi. Lo portai personalmente nei locali
dell'università di Camerino, dove c'è il cranio di un elefante
preistorico. Mi disse che il dente che aveva era identico ai mo-
lari di quello.

Se quello scheletro si trova basterà fare la datazione al ra-
dio carbonio. Se vengono 1200 anni sarà la prova che taglia la
testa al toro ... anzi all'elefante, che Aquisgrana era qui! 

giovedì 27 luglio 2023

Abul Abbas, è il nome dell'elefante donato del califfo abasside Harun Al Rashid a Carlo Magno. (parte prima)

 

Abul Abbas

In data 802 d. C. alla corte di Aquisgrana pervenne, dopo
un lungo viaggio di circa quattro anni, un
elefante, scortato
dall' ebreo lsacco, il suo mahout, il suo conduttore e custode.

Era un dono del califfo abasside Harun Al Rashid, più fa-
moso in letteratura come "il signore delle mille e una notte". Lo
attesta il biografo ufficiale di Carlo Magno, Eginardo.

Scrivono gli storici che questo animale esotico arrivò per
mare a Porto Venere, in Liguria. Da lì fu portato a Vercelli per
poi fargli attraversare le Alpi. Ma c'è anche chi scrive che detto pachider-
ma sbarcò a Pisa per poi essere portato a Pavia. Però per evitargli il valico
delle Alpi fu di nuovo imbarcato in Liguria per riprendere la terraferma a Ma
rsiglia                                                 

Da lì, risalendo la valle del Ro-
dano, avrebbe raggiunto Aix la Cha-
pelle senza eccessive difficoltà.

Negli "annales qui dicuntur Ein-
hardii" si legge che l'elefante morì
nell' 881 , dopo aver attraversato il
Reno, in località Lippenheim. Ma
questo brano riguardante l'elefante è

una evidente interpolazione, ammessa CafijJò Hàriin al-Rashid

      dai curatori stessi degli MGH. Di questi annali, pieni di cancellature, interpolazioni, toponimi in tede-

sco, correzioni, abrasioni ... io non mi fiderei.

venerdì 14 luglio 2023

Pubblico altri stralci della tesi del Prof. Giovanni Carnevale, per permettere a coloro che lo criticano/insultano di esprimere la loro saccenza.

Dal libro del Prof.

G I O V A N N I  CARNEVALE

La scoperta di

AQUISGRANA

in VAL DI CHIENTI

 

DRAGHI PERSIANI E PALMETTE SASSANIDI A CINGOLI (Mc) NEL

PORTALE DI S. ESUPERANZIO

 

            La primitiva arte islamica, dopo la rapida conquista delle terre orientali dell’Impero bizantino e di quelle dell’Impero sassanide, attinse largamente all’arte delle nuove province annesse all’Islam.

            Presso gli artisti omayyadi, a seconda della loro provenienza, a volte troviamo prevalenti i motivi sassanidi, a volte quelli della tarda romanità. In genere essi preferiscono

motivi geometrici o naturalistici: complessi meandri e intrecci di figure geometriche, palmette sassanidi, girali di grappoli e foglie di vite, uccelli, animali.

Solo di rado si ricorse a figure umane.

            L’arte omayyade – come del resto tutta la successiva arte islamica – fu essenzialmente decorativa e forse anche per questo fece largo uso dello stucco.

            Il portale di S. Esuperanzio a Cingoli (Mc), pur risalendo alla fase del Romanico piceno, ripropone in assoluta purezza imitativa motivi persiani o comunque orientali: draghi e palmette sassanidi, girali di vite. Segno evidente che in loco erano ancora presenti modelli risalenti alla Rinascenza carolingia.

            Nei fregi esterno e interno del portale di S. Esuperanzio la decorazione si risolve nella ripetizione standard di motivi a palmette sassanidi, ripetuti in serie fino a costituire due fregi ininterrotti. Il fregio centrale fra i due si fonda sullo stesso procedimento tecnico, solo che il motivo standard di grappoli e foglie di vite viene riproposto a facce alternatamente invertite, col risultato di conferire più vivace varietà all’insieme del fregio.

            Il fregio esterno delle palmette inizia e termina con le raffigurazioni di due

identici draghi, di ascendenza sassanide, anch’essi riprodotti a facce rispettivamente

invertite.

            Mentre nel portale di Fermo la raffigurazione del drago è unica e abbinata a quella dell’ibis – simbolo in Persia del potere imperiale e allusivo nel Piceno al potere imperiale di Carlo Magno – nel portale di Cingoli i due draghi hanno ormai valore puramente esornativo. Né poteva essere altrimenti alla fine del sec. XIII, a distanza di quasi mezzo millennio dall’epoca di Carlo Magno.

            I due attuali montanti con alla base i draghi persiani potrebbero essere stati in origine architravi di un edificio carolingio, reimpiegati e trasformati. I due draghi sono, infatti, in posizione verticale, innaturale, coi due arti non verso terra ma brancolanti nel vuoto.

            Anche la tecnica di esecuzione, se paragonata ai sovrastanti motivi ornamentali, è decisamente diversa. 

lunedì 10 luglio 2023

LA "SCUOLA SICILIANA" di Federico II, è veramente nata in Sicilia?

 Dall'ultimo libro del Prof. Enzo Mancini "LA BARBA FIORITA", riporto la seguente analisi su questo argomento, dagli storici accettato per "fede".

L'origine della lingua italiana

Ho letto casualmente il blog di un siculo che gongolando
riportava l'ipotesi di un linguista: "L'italiano come lingua è na-
to in Sicilia, dalla scuola siciliana fiorita alla corte di Federico
II a Palermo". Non sono d'accordo; quando è troppo è troppo.
Perché la scoperta di Aquisgrana in val di Chienti getta nuova
luce anche sulla nascita del nostro idioma. Quando la storia uf-
ficiale accetterà la tesi del professor Carnevale ed ammetterà
che il binomio "Roma et Francia" nel medioevo era situato
nell'attuale Piceno, sarà più chiaro per tutti anche come ha avu-
to inizio la lingua italiana. Naturalmente intendo la lingua che
ha usato Dante nella "Divina Commedia", perché una lingua
viva evolve continuamente. lo non sono un linguista e sarà dif-
ficile che potrò diventarlo, ma anch'io mi sono fatto un'idea su
come è nato l'italiano, anche se non piacerà molto ai blogger
siciliani.

C'è chi dice che sia nato dall'incontro del Latino parlato
con le "Chansons" dei trovatori provenzali, ma l'ipotesi è trop-
po sbilanciata a Nord. C'è chi dice, come detto sopra, che sia
nato a Palermo, ma l'ipotesi è troppo sbilanciata a Sud.

Se è vero che "in medio stat virtus" il posto più probabile
sta da noi, in quello che nel medioevo era chiamato "Ducato di
Spoleto".

Nel "De vulgari eloquentia" Dante scrive che ai suoi tempi
nella nostra penisola si potevano distinguere 14 dialetti: si chie-
deva quale poteva assurgere alla nobiltà di lingua. Il trattato,
scritto in latino, doveva essere di quattro libri, ma ne abbiamo
solo due.

Dei 14 dialetti a Dante non ne va bene nessuno, ma dato
che per ultimo parla del dialetto toscano, si potrebbe pensare
che avrebbe scelto questo come il male minore. Di certo non si
può negare che con Dante la lingua volgare diventa illustre pe-
rò, pur riconoscendo l'importanza del sommo poeta
nell'inaugurare la letteratura italiana, io penso che la lingua ita-
liana era nata prima di Dante, dal dialetto che si parlava nel du-
cato di Spoleto, dislocato fra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo
e adiacente alla Toscana. Dante non poteva rendersene conto,
anche perché il parto è stato lungo e laborioso e non del tutto
completato durante la sua vita.

Nel ducato di Spoleto viaggiava senza problemi Pietro di
Bemardone dei Moriconi per i suoi commerci, senza pagare
gabelle e senza incontrare briganti. E si portava dietro il piccolo
Giovanni per insegnargli le strade e il mestiere. E veniva nel
maceratese e nel fermano, nella Francia da cui veniva il padre
Bernardone, che ad Assisi chiamavano "il francese", cioè
francesco. Quando Bernardone morì per sor Pietro fu naturale
chiamare il suo primogenito col soprannome del nonno.

In seguito San Francesco scrisse il "Cantico delle Crea-
ture",
che è il primo componimento completo della lettera-
tura italiana. Alla sua composizione contribuì sicuramente

frà Pacifico, che prima di farsi frate era stato "re dei versi".



Dalle Marche, o meglio dalla Francia Picena, veniva la
maggior parte dei frati minori.

Questi frati che nei capitoli "delle stuoie" ascoltavano "il
Poverello" poi andavano a predicare in tutta la penisola; e la
maggior parte di loro parlava la lingua del ducato di Spoleto.

In questa maniera questo dialetto è diventato "cardinale".

Il fenomeno del francescanesimo come incipit della lin-
gua italiana non può essere ignorato,come non si può ignora-
re che contribuì non poco alla vittoria del papato su Federico
II, alla vittoria dei guelfi sui 
ghibellini. 

    

     Infatti Federico II cercò di portare dalla sua parte i 

frati minori, tramite frate Elia da Cortona, ma il papa possedeva

un'arma a quei tempi molto efficace: la scomunica. Ricordo per
inciso che frate Elia era di Assisi, anche lui del ducato di Spole-
to. A Cortona visse gli ultimi giomi della sua vita. Federico II,
imperatore e spirito libero, poteva fare spallucce alla scomuni-
ca, un credente come frate Elia no. E la misericordia del papa
attuale non andava ancora di moda.

Il dialetto di Spoleto è stato anche "aulico" perché era la
lingua madre di Federico II, nato a Jesi, battezzato ad Assisi
nella stessa chiesa dove era stato battezzato San Francesco, cre-
sciuto nei primi anni a Foligno. Lo "stupor niundi", che da a-
dulto parlava diverse lingue, aveva come madre lingua il dialet-
to del ducato di Spoleto. Perciò i poeti che furono denominati

come "scuola siciliana" da Dante stesso, alla corte di Federico
II dovevano adeguarsi alla lingua dell'imperatore; non poteva
essere il contrario.

Infine non ci dimentichiamo della curia papale. Se la sua
sede, come ricostruisce don Carnevale, era fra Corridonia e Ur-
bisaglia, anche papi e cardinali dovevano usare il dialetto del
ducato di Spoleto per farsi capire dal popolo o dalla perpetua.
Non potevano usare solo il Latino. Fu cosi che questo dialetto
poté diventare anche "curìale",

Concludendo, grazie a San Francesco, a Federico II, alla
curia papale il dialetto che si parlava da noi poté diventare
"cardinale, aulico e curiale".

Risciacquato in Arno, grazie a Dante Alighieri diventò an-
che "illustre".

Dante Alighieri arrivò poco dopo San Francesco e Federico 

II ed ebbe modo, nel suo esilio, di frequentare la Francia Picena, 

dove poteva spostarsi senza problemi, anche se le biografie 

ufficiali non lo dicono. 

Neanche San Francesco secondo le biografie ufficiali frequentò 

molto le Marche, ma per la tradizione locale San Francesco da noi 

era di casa; quando andava in Francia, quando andava a Roma, veniva da noi.

Nell'agosto 2015 ho ascoltato a Gubbio il medievista Jac-
ques Dalarun affermare di essere vicino alla soluzione della
questione francescana, definita da Chiara Frugoni "un ginepraio 
inestricabile". 

Ma credo che il ginepraio resterà tale finché i

medievisti continueranno a scrivere che il padre di San France-
sco si era arricchito commerciando con la Francia odierna.

I commercianti sanno benissimo che il tempo è denaro. Sor
Pietro di tempo ne doveva spendere parecchio per arrivare via
terra alla foce del Rodano. Poi doveva farsi accompagnare da
un piccolo esercito per non farsi depredare dai briganti. Poi do-
veva pagare tante gabelle. Quando li faceva i soldi? San Fran-
cesco si che poteva viaggiare tranquillo: si portava dietro solo
gli stracci di cui era vestito. Eppure anche così sulla strada fra
Gubbio e Assisi subì l'attacco di predoni. Come poteva evitarli
sor Pietro di Bernardone dei Moriconi, carico di merce o di
monete sonanti? Altro punto che mi suona strano è come non
trapeli un incontro - scontro del "Poverello" con i Catari. Eppu-
re la crociata contro gli Albigesi durò dal 1209 al 1229, con-
temporanea e oltre la vita del santo. Sono sicuro che San Fran-
cesco, se ne fosse stato al corrente, non si sarebbe fatto scrupoli
di ricordare ad Innocenzo III e ad Onorio III la misericordia di
Dio.

Ma torniamo alla origine della lingua italiana, che forse ho
svicolato un poco. Quando esposi a don Carnevale le mie idee
sull'origine della nostra lingua non mi nascose la sua riprova-
zione, anzi un attimo pensai che mi arrivasse uno sganassone,
nonostante fosse già costretto alla sedia a rotelle. Don Giovanni
giustamente osservava che questi discorsi non li può fare uno
storico serio, senza prove documentali. Però io faccio lo storico
per hobby, potrò anche uscire con qualche sparata. Ne fanno
molte di più gli storici patentati.

 

venerdì 7 luglio 2023

Il Prof Enzo Mancini ci parla di Dionigi il Piccolo: il vero Padre della Storia




Kirbat al Mafjar: Informazioni sul Palazzo di Hisham (Volutamente ignorato dagli archeologi e dagli storici, perché il suo Frigidarium è il prototipo di San Claudio)

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

 Kirbat al Mafjar: Palazzo di Hisham

La finestra rotonda che caratterizza il Palazzo di Hisham. (E’ il prototipo dei “rosoni”?)

Il Palazzo di Hishām (in araboخربة المفجر‎, Khirbat al-Mafjar, in ebraicoח'רבת אל-מפג'ר) è un complesso residenziale invernale dei califfi omayyadi, risalente all'VIII secolo d.C., sito a circa cinque chilometri a nord della città di Gerico, del quale rimangono oggi solo alcune rovine.

Costruzione

Il palazzo fu eretto tra il 743 ed il 744 a cura di al-Walid II ibn Yazid II,[1] nipote e successore del califfo Hisham ibn 'Abd al-Malik (691 – 743), che regnò dal 723 fino alla morte.

Esso fu eretto sul modello delle terme romane e fu decorato con mosaici e stucchi.[2]


Colonne dalla corte del Palazzo di Hisham

Il complesso comprende un palazzo, un cortile pavimentato, un ambiente per i bagni, una moschea, un cortile con fontana, un giardino di 60 ettari contenente piante, animali, mosaici e decorazioni di elevato livello.[3]

Il palazzo stesso era un ampio edificio quadrato con un'entrata monumentale e stanze su due piani circostanti un lungo porticato.[4][5]

Un sofisticato sistema di tubazioni sotterranee forniva acqua calda (una parte del sistema esiste ancora). La zona destinata ai bagni veniva utilizzata anche come sala per le udienze e per i banchetti.[6] L'architettura della sala per I bagni e la Fontana contiene alcuni esempi delle tecniche tardo antiche e classiche di costruzione ignote in altri posti.[4]

Scavi recenti hanno portato in luce laboratori e magazzini che confermano l'appartenenza del palazzo al periodo degli omayyadi.[7]

Elemento caratteristico ed emblema del Palazzo è una finestra, probabilmente crollata a causa del terremoto, ricostruita e sorretta da un apposito muretto in mattoni. Si tratta di una finestra a forma rotonda: una corona circolare in laterizio nella quale è inscritta una rosetta esalobata con al centro un foro a sezione circolare: pare[8] che sia stata questa finestra, la cui forma divenne nota in Europa grazie ai crociati, ad ispirare la forma dei rosoni che ornano le facciate di molte cattedrali gotiche europee.

Mosaici


Mosaici nella sala delle udienze, sita nella zona termale del palazzo

Nell'angolo destro dei bagni c'è un piccolo locale riservato al principe. In esso stava un delizioso e misterioso pannello in mosaico. Il suo disegno è un grande albero sotto il quale si vede, sul lato destro, un leone attaccare un cervo mentre sul sinistro due cervi pascolano tranquillamente. L'interpretazione di questa raffigurazione non è univoca. Alcuni sostengono che probabilmente essa rappresenta il buono ed il cattivo governo, mentre altri lo spiegano sostenendo che il leone rappresenta il principe ed i cervi le donne del suo harem. Quest'ultima interpretazione si fonda sull'osservazione che i cervi paiono tranquilli e per nulla intimiditi dalla presenza del leone. Migliaia di frammenti sono immagazzinati nel Museo Rockfeller a Gerusalemme ma pochi hanno potuto studiarli.[4]

Gli stucchi che mostrano dipinti di donne seminude sono unici nell'arte islamica[2] e le decorazioni per tutto il palazzo che superano in sontuosità le equivalenti romane vengono considerate come la dimostrazione della natura poco religiosa degli Omayyadi.[9]

Molti dettagli del palazzo sono ora noti agli storici grazie agli scavi ed alla ricostruzione della disposizione fatta da Robert Hamilton.[10]

Il palazzo fu distrutto da un terremoto nel 747.[11]