giovedì 27 maggio 2021

Il Prof. Enzo Mancini ci parla dello "Studium Parisiense".

              Dove era Parigi, cioè l’Universitate Parisius, nel “ saeculum obscurum”? 
         In un articolo del 5 marzo 2020 su “ la Rucola” la signora Simonetta Borgiani mi fa presente il suo dissentire dalla mia ricostruzione sulla localizzazione della Parigi primigenia nella Francia Picena. 
         Mi scuso di aver letto l’articolo solo dopo un anno, ma non c’è prescrizione in questi argomenti.             Anche un’altra Simonetta, la Torresi, ha scritto di Parigi localizzata nell’attuale Macerata. La seconda Simonetta, già a conoscenza della mia opinione, mi ha voluto scusare dicendomi che avevo letto libri diversi dai suoi. 
        Ma io vorrei far presente che non ho nessun problema ad ascoltare ricostruzioni diverse dalle mie, anzi sono contento che se ne parli, che a qualcuno l’argomento interessi. 
        Comunque mi pare opportuno puntualizzare qualche aspetto della questione. 
        Se “Lutetia parisiorum” è un toponimo, un luogo che oggi è diventato Parigi, la metropoli transalpina, lo “Studium Parisiense” era una scuola, quella di più alto livello che poteva starci in quei tempi. 
        Questo ho capito e di questo sono convinto. 
        Scrive l’abate Frobenius Forster, un erudito tedesco del XVIII secolo, che un tal Tritemio, non meglio identificato, ha scritto prima di lui, che lo “Studium Parisiense” fosse “ a Roma translatum”. Quindi nella Francia Picena Parigi non era un toponimo ma una scuola che si poteva spostare da un paese ad un altro
        Perciò non posso escludere che in un periodo più “obscurum “ del solito, come ai tempi del processo cadaverico di papa Formoso, questo "studium" si potesse trovare nei luoghi dove oggi si trova Macerata. (Secondo me questo processo orripilante si svolse nel castello di Lornano, a Ornat, dove un diacono pronunciò, a posto del papa defunto, la professione di colpa.- Pag. 201 del volume IV di Storia della Chiesa – diretta da Hubert Jedin ). 
        Ma ai tempi di Pipino il Breve e di Carlo Magno secondo me lo "Studium Parisiense" si trovava a San Ginesio, o meglio presso il "monasterium sancti Dionisii". 
        Invece ai tempi di san Francesco e di Dante, lo studium si trovava a Camerino, che è, sempre secondo me, il luogo da considerare “la culla della lingua italiana”. E anche il luogo che vide nascere l’amore di Abelardo per Eloisa, ma questo non ditelo ai Francesi. 
        Spero che don Giovanni non mi si rivolti nella tomba, perché non era d’accordo su queste mie uscite. Perché le prove non le ho; lo desumo dai libri che ho letto, (compresi quelli di Giovanni Carnevale e di Simonetta Torresi). 
        Spiegarmi meglio per ora mi risulta difficile; forse lo farò quando e se avrò tempo. In parte ad essere precisi l’ho già fatto in articoli precedenti. 
        Per avere le prove forse dovremo aspettare l’invenzione della macchina del tempo. Ma può darsi che in futuro l’archeologia potrà fare il miracolo anche senza questa macchina. 
        Però solo quando gli archeologi prenderanno sul serio la teoria di Giovanni Carnevale. Chi vivrà vedrà. 
         Mancini Enzo                          Macerata 23 maggio 2021

lunedì 10 maggio 2021

Il Prof. Enzo Mancini ricorda il Prof. Giovanni Carnevale ad un mese dalla sua scomparsa.

A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti, o Pindemonte. Chissà perché al sentire la notizia della morte di Giovanni Carnevale mi son venuti subito in mente questi versi del Foscolo. “I sepolcri” li scrisse a seguito del napoleonico editto di Saint Cloud. Il mio maestro Nazareno Sardellini in terza elementare me ne parlò chiamandolo editto di San Claudio, confondendomi un poco le idee. La mia scuola elementare era a pochi metri dalla chiesa di San Claudio al Chienti. Per me san Claudio era solo quello e non una vaga località francese che oggi è stata fagocitata dalla metropoli di Parigi. Certo è che senza aver conosciuto questo salesiano, appena passato a miglior vita, mai avrei potuto immaginare di interessarmi a Carlo Magno. Venni a sapere dell’eclatante articolo di don Carnevale, comparso sulla rivista della provincia di Macerata, solo dopo vari mesi, grazie ad un amico che era anche il mio abituale fotografo, Franco Bartolo. Anzi ad essere precisi lo scoop storico uscì ad aprile 1992 e il mio fotografo me ne parlò che era la primavera del 1993: a riprova che quell’articolo era passato sotto silenzio e che non era uscito dall’ambito locale. Io invece caddi dalle nuvole! L’assessore della provincia responsabile di quella rivista, (ricordo il nome ma non merita una citazione), dopo qualche anno se ne lavò le mani come Pilato, dichiarando che mai avrebbe dato il consenso a pubblicare quell’articolo se fosse stato a conoscenza del contenuto. Avrebbe fatto migliore figura a starsene zitto, questo tipico esempio di politico azzeccagarbugli che gravita in questo territorio. I tipi come lui accreditano la fama di provincialismo di Macerata, con cui si divertono “ i Vitelloni” nei salotti della Roma Bene. (Io aborro…) Come se senza di lui lo “Scoop” non ci sarebbe mai stato! Insomma la morte del professor Carnevale mi affolla la mente di ricordi. Nel 1993 mi sentii in dovere di approfondire. Ero della razza mia il primo ad aver studiato al Liceo Classico, anche se poi mi sono laureato in Scienze Biologiche. Nei libri del Liceo avevo letto della disputa sul “Capitulare de villis”. Lo storico austriaco Alfonz Dopsch aveva già dimostrato che Aachen non poteva essere l’Aquisgrana di Carlo Magno, a causa della flora mediterranea citata nel documento, ma la Germania nazista non gli aveva dato credito. Non gli dette peso neanche Marc Bloch, forse per ripicca nel mondo accademico . All’università di Camerino avevo studiato Fitogeografia e mi era chiaro il concetto che le piante non possono mentire. Non ricordo quando ma mi ero imbattuto nel saggio della signora Barbara Fois Ennas sul Capitulare de villis. Mi colpì l’affermazione della docente dell’Università di Cagliari che questa terra misteriosa poteva essere molto meglio la Sardegna che la regione fra la Mosella e il Reno. Per farla breve prima di andare ad ascoltare per la prima volta don Carnevale avevo cercato di documentarmi. Era già l’autunno del 1993 quando mi recai a Treia, nel piccolo auditorium del comune. Non c’era tanta gente, si e no venti persone. Nella sala dove si svolgeva la conferenza c’erano dei banchi di scuola con la buca per il calamaio. Mi sembrò di essere ritornato scolaretto, anche perché nel banco dietro di me sedevano due illustri presidi che mi mettevano soggezione. Erano solo due o tre anni che ero passato di ruolo come insegnante. Dopo poco che don Carnevale aveva iniziato ad esporre la sua teoria sentii i due vicini di banco trattenersi a stento dallo sbellicarsi dalle risa. Era una normale reazione di docenti di lunga carriera. Uno era il preside Vita, che a dispetto del cognome morì pochi mesi dopo. L’altro preside, Cardarelli, dopo l’iniziale dissenso, mi hanno detto che si era convertito alla tesi del professore salesiano. Ritornando a Treia, poco dopo che i due presidi si erano ricomposti, don Giovanni chiese espressamente aiuto “di fronte ad un maremagnum di bibliografia da consultare e documenti da rileggere”. Allora ebbi il coraggio di intervenire dicendo che nel “Capitulare de villis” il sire comandava di produrre il vino cotto, prodotto tipico della nostra provincia, con la famosa sagra di Loro Piceno. Mi resi conto che non lo aveva ancora letto. Questo fu il mio primo contributo prima di pubblicare “Aquisgrana Restituta”. Ma don Giovanni era un tipo tosto: si divertiva di più quando veniva contraddetto piuttosto che quando lo allisciavano. Un poco mi seccò ma poi me ne feci una ragione. Comunque poi il “Capitulare” se lo studiò molto meglio di quanto potevo fare io. "Requiescat in pace”. Quando stava già sulla sedia a rotelle ogni tanto lo andavo a trovare e si discuteva. Non era facile sostenere la mia opinione quando era diversa dalla sua: si accalorava e agitava le sue manone che mi preoccupavo mi potesse arrivare un sonoro scapaccione, nonostante la vecchiaia e l’infermità. Mi dispiace che se ne sia andato prima che il mondo accademico riconoscesse il valore della sua scoperta, ma lui era il primo ad ammettere che ci sarebbero voluti: “molti e molti anni dopo la mia morte. Per accettare Copernico ci son voluti due secoli” Don Giovanni era anche un esperto di Dante Alighieri; come Dante non ebbe un buon rapporto con la madrepatria Firenze anche lui non ha avuto un buon rapporto con la cultura italiana, e nemmeno con quella estera. Ho affermato più volte che avrebbe meritato un Nobel, eppure non lo hanno nemmeno citato su Wikipedia. Ma credo di essere un facile profeta rivolgendomi al vecchio salesiano e prendendo in prestito una terzina del XV canto dell’Inferno: "La tua fortuna tanto onor ti serba che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba” Per accettare don Giovanni Carnevale mi auguro ci vogliano meno di duecento anni, ma non succederà prima che se ne vadano da questa valle di lacrime anche Franco Cardini e Alessandro Barbero. Quelli cioè che dicono di applicare alla storia un metodo scientifico, che invece scientifico non è. Naturalmente anche il sottoscritto starà in quel momento a far terra per i ceci. Amen. Macerata 11 maggio 2021 (ad un mese dalla morte di Giovanni Carnevale ) Mancini Enzo