giovedì 23 febbraio 2017

La relazione presentata dall’Ingegner Donati a Camerino con la quale afferma che il dialetto maceratese-fermano- camerte è il più antico d’Italia, ci offre l’occasione di riproporvi le relazioni del Prof. Enzo Mancini da noi qui pubblicate il 22 e 27 febbraio 2016.

Il Prof. Enzo Mancini aggiorna la sua precedente relazione su "La nascita della lingua italiana e la questione francescana", con questo articolo che contiene risvolti clamorosi.


 27 febbraio 2016
Nell’articolo precedente, in cui parlavo della nascita della lingua italiana e della questione francescana, mi è scappata una piccola gaffe, o grande, se preferite, riguardo a Fra Pacifico, scrivendo che era di San Severino.
Non posso non tornare su questo personaggio, che ha un ruolo chiave sia  per la nascita della lingua italiana sia per la questione francescana.
 Guglielmo Divini è nato a Lisciano, sotto colle san Marco e sopra Ascoli Piceno, sembra nel 1158. Non è stato fatto santo, resta Beato Pacifico da Lisciano.
Il san Pacifico di san Severino è posteriore, vissuto dal 1653 al 1721, anche lui frate minore, anche lui, curiosamente, di cognome Divini.
Ma a noi interesse il Beato Pacifico, quello che a  San Severino nel 1212, (o 1213), si convertì a
 san Francesco, letteralmente da un giorno all’altro, come riporta Tommaso da Celano ( Vita seconda, cap. LXXII ) .
Quando aveva 29 anni Guglielmo recitò un carme encomiastico di sua composizione di fronte a Enrico VI , in visita ad Ascoli, fresco sposo di Costanza d’Altavilla. Il poeta impressionò tanto bene la coppia regale che se lo portarono in Sicilia, dove soggiornò fino al 1211. Ma, da cavalier servente, seguiva la regina. La Gran Costanza, erede del regno di Sicilia, il 26 dicembre del 1194, nella piazza di Jesi, dette alla luce  Federico II.
Ma ascoltate che gossip: osserva Benedetto Leopardi di Monte San Pietrangeli, quasi un secolo fa, che nove mesi prima Enrico VI non era con la moglie, più vecchia di lui di 11 anni, ma in Germania. Costanza stava a Spoleto, con le sue dame e il suo cavalier servente, Guglielmo Divini.
L’ipotesi dell’amor galeotto è clamorosa, ma non inverosimile. Il matrimonio era stato combinato, capolavoro politico ma non affettivo. Questo imperatore era un uomo crudele: costrinse Costanza ad assistere alla esecuzione con tortura di Guglielmo Monaco, signore di Castro Giovanni (Enna), a cui fece inchiodare sul capo una corona di ferro rovente. Enrico VI morì poi in circostanze misteriose, nel 1197, a soli 32 anni, secondo malelingue avvelenato dalla moglie, ma forse dicevano la verità.
Anche lei morì di lì a poco, il 27 novembre 1198, lasciando il piccolo Federico sotto la tutela del papa Innocenzo III.
Nel 1208, quando Guglielmo Divini aveva 50  anni, Federico II adolescente lo incorona “re dei versi”, ignaro certamente ( o no, chi può saperlo?) che fosse suo padre.
Alla corte di Federico II nacque poi la scuola poetica che Dante chiamò “siciliana”.
Ma questi siciliani da chi impararono l’arte se non dal nostro Guglielmo Divini?
Che poi diventò fra Pacifico in fretta e furia, a 54 anni: certamente si sarà convertito, ma quanto sarebbe valsa la sua pelle se gli fosse sfuggito il suo grande segreto?
Quindi fra Pacifico seguì san Francesco, era presente quando al santo fu donato il monte della Verna, soprattutto era con lui dal 1223 al 1226.
Il che giustifica l’ipotesi che il “ Cantico di frate Sole” sia stato composto a quattro mani. Il “Poverello” era cieco, malato, ignaro di metrica. Nel Cantico lui ci mise l’ispirazione, fra Pacifico ci mise le parole giuste, in volgare italiano.
E’ curioso che Francesco Salvatore Attal, autore di una biografia del santo di Assisi fra le più dettagliate, scriva: “Una vecchia leggenda … vuole che san Francesco abbia fatto venire fra Pacifico, l’antico re dei versi, per dar forma perfetta alla metrica del canto, arricchendolo di cadenze musicali. E’ una leggenda assurda. Fra Pacifico morì nel 1220, mentre si recava in Francia”.
Ma assurdo è quello che scrive Attal, perché fra Pacifico morì nel 1234, all’età di 76 anni!
Ma non me la voglio prendere troppo con Attal, che scrive con il dente avvelenato contro Paul Sabatier, il principale responsabile della nascita della questione francescana.



Perché anche Attal, circa novanta anni fa, era convinto che l’Italiano come lingua nasce dai frati minori di san Francesco.
Riporto testualmente quello che leggo nella sua biografia di san Francesco d’Assisi, edita dal Messaggero di S. Antonio, Padova:
…Ma quando i fraticelli allargarono la loro cerchia, spingendosi ovunque in Italia, si impose la necessità di fissare epoche determinate in cui tutti i compagni potessero ritrovarsi insieme…Così nacquero quelle riunioni periodiche che, con espressione tolta al linguaggio cavalleresco, furono dette “Capitoli”… Per la Pentecoste (maggio)… e per san Michele (29 settembre)…
…L’Italia del 1200 aveva una sua civiltà originale, fastosa, brillante. Le corti degli imperatori, dei re di Sicilia, dei marchesi d’Este e di Monferrato, le città lombarde, le grandi repubbliche marinare, Firenze, Roma, celebravano le loro solennità con feste, giostre, tornei di poesia, da cui uscì quel linguaggio che Dante chiamerà” illustre, aulico e curiale”( De Vulg. Eloq. I, XVII,1) e che sarà il linguaggio della Divina Commedia.
A partire dal 1216 si vide ogni anno nel piano di Assisi un’altra solennità caratteristica, una corte plenaria come non se ne erano mai vedute, differente da tutte le giostre di amore celebrate fin allora e superiore ad esse di tutta la distanza che corre fra l’amore umano e il divino”.

Dal momento che ho citato questo autore, mi si permetta di citare anche un altro passo significativo di questo libro:
Nel capitolo del 1217 dice san Francesco ( Speculum Perfectionis LXV ):
“Fratelli miei carissimi, a me si conviene essere modello ed esempio di tutti i frati…Adunque… io eleggo la provincia di Francia ove ha cattolica gente, in specie perché meglio degli altri cattolici fa grande riverenza al corpo di Cristo, il che mi è cosa graditissima…”

Come poteva il Santo parlare della Provenza, dove era in corso la crociata contro gli Albigesi, i Catari che non erano proprio cattolici, ma dichiaratamente contrari all’Eucaristia?
Parlava della Francia del Piceno, parlava di noi.


Mancini Enzo



lunedì 22 febbraio 2016

"La nascita della lingua italiana e la questione francescana" del Dott. Enzo Mancini

La nascita della lingua italiana e la questione francescana

L’impulso a buttare giù queste due righe mi è venuto dall’essere casualmente incappato in un blog in cui un siciliano riportava gongolando l’ipotesi di uno studioso che  diceva che l’italiano come lingua è nato in Sicilia, dalla scuola siciliana fiorita alla corte di Federico II. Non sono d’accordo. Quando è troppo è troppo!
Perché la scoperta di Aquisgrana in val di Chienti getta nuova luce anche sulla nascita del nostro idioma nazionale.
Quando la storia ufficiale accetterà la tesi di Giovanni Carnevale ed ammetterà che il binomio “ ROMA ET FRANCIA” nell’alto Medioevo era situato nell’attuale Piceno, sarà più chiaro per tutti anche come ha avuto inizio la nostra lingua italiana.
La dicitura “Roma et Francia” compare nel famoso, ( si fa per dire), astrolabio carolingio, conservato nel museo de” l’Istitut du monde Arabe” a Parigi, a un tiro di schioppo da Notre-Dame, sulla “rive gauche “ della Senna.
Questo astrolabio, scoperto da Marcel Destombes, rappresenta un rompicapo irrisolto per i medievisti, che chiudono la questione, come succede spesso in questi casi, dichiarando l’oggetto un falso. Ma, se ha senso falsificare un documento, che senso ha falsificare un oggetto, io mi domando.
Questo astrolabio attesta che quando fu costruito, verso la fine del X secolo, perché i caratteri utilizzati sono di quel periodo, la Francia era un po’ più a Sud e Roma un po’ più a Nord rispetto alla collocazione attuale.
Ma ora il discorso che mi interessa sviluppare è la questione della nascita della lingua italiana, sulla quale circolano anche da parte degli esperti ipotesi discutibili. Ne esiste una sbilanciata verso Nord, che attribuisce gli albori della lingua all’incontro fra il Latino parlato e le “chansons” dei trovatori provenzali; un’altra, sbilanciata a Sud, vuol dare il merito alla scuola siciliana, quel gruppo di poeti che animavano la vita di corte di Federico II.
Io non sono uno studioso della lingua né un esperto di glosse e di fonemi, ma mi son fatto un’idea su come è nata la lingua italiana e cercherò di esporla, appoggiandomi al noto proverbio: “in medio stat veritas”. E’ vero, ho sbagliato, “ in medio stat virtus” “et veritas stat in vino”, ma è un errore che ormai fanno in molti: non facciamone una questione di lana caprina, semmai ne riparliamo in un’altra occasione.
Nel “ De vulgari eloquentia” Dante, o chi per lui, ( non è matematico che l’autore della Divina Commedia abbia scritto anche questo trattato), attesta che ai suoi tempi nella nostra penisola si potevano distinguere 14 dialetti. Quale fra questi può assurgere alla nobiltà di lingua? Vengono scartati  tutti ma, prima di concludere, il discorso si interrompe. Sembra che nelle intenzioni dell’autore il trattato scritto in latino doveva essere di quattro libri, ma si ferma al secondo, senza una precisa presa di posizione. Siccome per ultimo si parla del dialetto toscano, si direbbe che sarebbe questo quello più titolato ad essere elevato al rango di lingua per il sommo poeta.
Posso immaginare che se Dante avesse completato il “De vulgari eloquentia” alla fine avrebbe scritto: “L’Italiano l’ho inventato io!”


Credo che Dante, nella sua boria, fosse cosciente che la sua opera potesse essere considerata come l’alba della lingua italiana, e sono molti gli italiani che sono di questo avviso. Non è possibile negare che la lingua volgare con lui diventa “illustre”. Però, pur riconoscendo l’enorme importanza del sommo poeta nell’inaugurare la letteratura italiana, ho in testa un pensiero diverso: che la lingua italiana era già nata prima di Dante, dal dialetto che si parlava nel ducato di Spoleto,  dislocato fra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. (Per qualcuno il termine ducato di Spoleto sarebbe da sostituire con “regno dei Franchi”, ma per ora non la posso tirare per le lunghe.)
Questo dialetto nel trattato di cui parliamo viene scartato per terzo, senza nemmeno una spiegazione, un motivo più o meno plausibile, come si fa per tutti gli altri, come se fosse il meno indicato fra i quattordici presi in considerazione.
Ma il ducato di Spoleto intorno al XII secolo era una entità politica importante, di cui rimane traccia evidente nei dialetti attuali.
Quando da ragazzo giravo per il centro Italia per praticare lo sport della bicicletta rimanevo meravigliato che a Spoleto, a Foligno, a Spello i contadini parlavano come me, che venivo dalla campagna della valle del Chienti. Mi sorprendeva constatare che c’era più differenza linguistica fra me e un pescatore di Civitanova, distante circa dieci chilometri da casa mia, che fra me  e un abitante  di Trevi, a cento chilometri e dalla parte opposta dei Sibillini.
Nel ducato di Spoleto si poteva muovere senza problemi Pietro di Bernardone dei Moriconi per i suoi commerci, senza dover pagare gabelle e senza incontrare briganti, che invece pullulavano al di fuori dei confini del ducato.
Sor Pietro, come fu cresciuto abbastanza, si portava appresso il figlio per insegnarli il mestiere e le strade. E veniva qui, in provincia di Macerata e di Fermo, nella Francia da cui veniva suo padre, che ad Assisi chiamavano “il francese”, cioè Francesco.
Quando Bernardone morì per sor Pietro fu naturale, come mi  ha fatto notare Gianfranco Baleani, chiamare il suo primogenito con lo stesso soprannome, anche se lo avevano battezzato come Giovanni.
La lingua madre di san Francesco era quindi lo stesso dialetto che parlava mio padre, contadino della Mensa arcivescovile di Fermo, conosciuto come “lu fermà”.
E san Francesco scrisse il Cantico delle Creature, che è il primo componimento poetico completo della letteratura italiana, per il quale contribuì quasi sicuramente frà Pacifico, di San Severino, che prima di entrare nell’ordine dei frati minori era stato “re dei versi”.
Dalle Marche, o meglio dalla Francia, veniva la maggior parte dei frati minori. Diceva Carlo Bo: “ San Francesco è nato ad Assisi, ma il francescanesimo nasce nelle Marche”.


Questi frati che nei capitoli “delle stuoie”ascoltavano “il Poverello” poi andavano a predicare in tutta la penisola, e la maggior parte parlava la lingua del ducato di Spoleto. Per predicare e confessare la gente bisogna capirla e farsi capire.
Questo dialetto per tale motivo è stato quindi “cardinale”.
Il fenomeno del francescanesimo come incipit della lingua italiana non può essere ignorato, come non si può dimenticare che contribuì notevolmente alla vittoria del papato su Federico II.
Quest’ultimo infatti non sottovalutò per niente il fenomeno dei frati minori e tramite frate Elia da Cortona cercò in tutti i modi di portarli dalla sua parte. E frate Elia, che era nato ad Assisi, detto da Cortona perché ci morì,  anche lui era di lingua madre del dialetto di Spoleto. Ma il papa aveva un’arma che a quei tempi era molto efficace: l’arma della scomunica. E a quei tempi la misericordia non andava ancora di moda.
Ma questo dialetto è stato anche “aulico”. Perché era la lingua madre di Federico II , nato a Jesi, battezzato ad Assisi, allevato a Foligno  nei primi tre anni di vita.
Questo grande uomo, “stupor mundi”, da adulto parlava diverse lingue, ma non dimentichiamoci che la sua lingua madre era quella del ducato di Spoleto.
Perciò i poeti, che furono denominati come “scuola siciliana” dallo stesso Dante,  alla corte di Federico II dovevano adeguarsi alla lingua dell’imperatore, non il contrario. Ultimo argomento, (- last but not least - direbbero oltre Manica), riguarda la curia papale. Se la sua sede era dalle parti di Urbisaglia, anche i cardinali e il papa, che fra di loro e nelle funzioni usavano il Latino, per farsi capire dal popolo o dalla perpetua dovevano usare il dialetto del ducato di Spoleto. Poi dovettero scappare dalla val di Chienti: erano quasi tutti Ghibellini. Dovette andare a Perugia, Orvieto, Viterbo, forse anche nella Roma del Lazio, dove erano di più i Guelfi.
Per concludere, il dialetto del ducato di Spoleto grazie a san Francesco, a Federico II e alla Curia papale può essere considerato “ cardinale, aulico e curiale”.
Dante arrivò poco meno di un secolo dopo ed ebbe modo, nel suo esilio, di frequentare anche la Francia Picena, dove poteva spostarsi senza problemi, anche se le biografie ufficiali parlano di un fantomatico viaggio del sommo poeta a Parigi.
Oggi il nostro dialetto, che si parla ad Est e ad Ovest dei Sibillini, viene preso in giro nella Capitale, nei film, nei teatri, considerato un “parlar burino”.
Ma i burini sono loro, perché l’Italiano non è nato a Roma e nemmeno a Firenze, ma qui, fra Marche e Umbria. Non solo perché questo territorio è il baricentro geografico della penisola italiana, ma anche perché San Francesco quando andava in Francia veniva da noi.
Nelle biografie ufficiali del Santo viene appena  ammessa la sua presenza  ad Ancona, per imbarcarsi per la Terra Santa, ma per la tradizione dei francescani  da noi era di casa.
La scorsa estate ho ascoltato a Gubbio una conferenza di uno dei massimi conoscitori viventi della vita e della spiritualità di san Francesco, il medievista Jacques Dalarun, un francese che avrebbe voluto essere nato qui, nella terra dei Fioretti.
Avendo scoperto un manoscritto nuovo, un intermedio fra la vita prima e la vita seconda di Tommaso da Celano, riteneva di essere vicino alla soluzione della questione francescana, che qualcuno ha definito “un ginepraio inestricabile”.


Con tutto il rispetto, signor Dalarun, il ginepraio resterà tale, fino a quando i medievisti continueranno a scrivere che Pietro di Bernardone si era arricchito commerciando con le regioni che si trovano nella Francia odierna.
Prima di tutto perché il tempo è denaro, dicono i commercianti; di tempo ne avrebbe dovuto spendere parecchio in viaggio. Poi doveva farsi accompagnare da un piccolo esercito ben armato per non farsi depredare dai numerosi briganti. Poi doveva godere di chissà quanti lasciapassare per superare indenne le numerose fermate per pagare le  pesanti gabelle. Quando li faceva i soldi?
San Francesco poteva sì viaggiare tranquillo: si portava dietro  solo gli stracci di cui era vestito! Eppure anche così subì l’attacco dei predoni.
Come poteva evitarli sor Pietro di Bernardone dei Moriconi, carico di merce e di monete sonanti?
Spero di non offendere nessuno, ma trovo che i medievisti spesso
“filtrano il moscerino e ingoiano il cammello”.
Altra cosa che mi sembra strana è come non trapeli il minimo incontro del “Poverello“ con i Catari, che della crociata contro gli Albigesi non ci sia traccia nelle varie biografie del santo. Sono sicuro che se san Francesco ne fosse stato al corrente
non si sarebbe risparmiato di ricordare al papa la misericordiadi Dio.

Concludendo il discorso principale, il proto – italiano, nato principalmente dal dialetto del ducato di Spoleto, nel centro Italia, è diventato cardinale grazie a san Francesco e ai suoi frati minori, la corte di Federico  II  lo ha reso  aulico, la curia papale lo ha fatto curiale, infine grazie a Dante è diventato ancheillustre.
Se qualcuno pensa che ho scritto queste righe per l’effetto dei fumi dell’alcool etilico non si trattenga dall’esternarlo, ma si ricordi che“ in vino veritas”.
Fra questi ci sarà sicuramente don Carnevale, che non mi ha nascosto per niente la sua riprovazione, anzi, quando gli ho letto la bozza di questo articolo ho temuto che mi arrivasse uno sganassone, nonostante fosse seduto nella sua sedia a rotelle.
La giusta critica di don Giovanni è principalmente che un discorso del genere uno storico serio non lo può fare senza citare le fonti. Ma io faccio lo storico solo per hobby, lo facciano gli storici professionisti. Io non mi posso addentrare nella selva oscura della bibliografia col rischio di non poterne più uscire, meglio sorvolarla con un piccolo drone; e inoltre chi è senza peccato scagli la prima pietra, a cominciare da quelli di Capracotta. Ma soprattutto in Germania, dove da più di cento anni sono a conoscenza del fatto che Aachen non può essere l’Aquisgrana carolingia, non possono continuare a dire: “ Le ossa che abbiamo qui nel sarcofago di Proserpina sono veramente di Carlo Magno ( perché… perché lo diciamo noi! )”
Nessuno dei giornali italiani che hanno riportato la cosiddetta notizia, circa un anno fa, ha rilevato il “ non senso”.

                                                    Macerata 19 febbraio 2016       Mancini Enzo


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