domenica 15 marzo 2015

BREVE APPENDICE STORICA SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO - Parte seconda


                                                       BREVE APPENDICE STORICA
                                     SULLA VAL DI CHIENTI NELL’ALTO MEDIOEVO
                                                  (con articoli apparsi sulla stampa locale)



Ad utilità dei lettori riproduciamo quattro articoli apparsi sul periodico “Montolmo e Dintorni”, edito a Corridonia, redatti dal Prof. Giovanni Carnevale con la collaborazione dell’Arch. Riccardo Garbuglia.

                                                           LA “FRANCIA” PICENA
                                                E LE SUE ESPANSIONI PERIFERICHE
(L’articolo è stato ripreso dal periodico “Montolmo e Dintorni” di Corridonia: N°7 dicembre 2011)

Nel 715, per sfuggire all’invasione araba, arrivarono nel Piceno i profughi franchi dall’Aquitania, la regione compresa tra i Pirenei e l’oceano atlantico.  Si erano interessati, per accoglierli, oltre al Papa, l’abate di Farfa Tommaso di Morienna e il Duca longobardo di Spoleto Faroaldo.  Il Duca aveva predisposto la donazione, in favore dei profughi, di terre che lui considerava di sua spettanza ma che erano ormai desertificate per eventi bellici e per il sopravvenire di pestilenze, che nell’antichità colpivano quasi ogni generazione.  Sappiamo che queste terre erano dislocate a ridosso di due antiche strade romane, la Salaria gallica, che percorreva tutto il Piceno lungo il tracciato pedemontano che oggi corrisponde alla statale 78, e che a Roccafluvione attraversava il Tronto su un ponte romano i cui resti esistono ancora e si innestava sulla Salaria consolare, la seconda strada appunto, che, attraverso la Sabina, raggiungeva Roma, sede del Papato.
Si noti che nell’Italia centrosettentrionale esistevano altre due città che svolgevano funzione di capitali: Ravenna, capitale dell’Esarcato bizantino, che controllava anche la Decapoli, cioè il territorio che corrisponde oggi alle Marche settentrionali, e, sul Ticino, Pavia, capitale del regno longobardo.  Questo ci fa comprendere che l’Italia centrosettentrionale era praticamente suddivisa in tre diverse entità politiche: un ampio territorio longobardo che comprendeva la pianura padana, quasi tutta l’Umbria e parte della Toscana; l’Esarcato, che controllava gli antichi municipi romani al di qua e al di là dell’adriatico settentrionale, teoricamente dipendenti da Bisanzio ma in pratica ormai autonomi e già in decadenza e il territorio del Papato, a cui restava il controllo del Lazio e delle zone meridionali dell’Umbria e della Toscana.
Il Piceno, tra l’Adriatico e i Sibillini, era praticamente desertificato.  Durante il secolo VII, quando i Longobardi non si erano ancora convertiti al cristianesimo, era pericoloso portarsi da Ravenna a Roma e viceversa percorrendo l’antica Flaminia e perciò attraversando l’Umbria.  La Flaminia da Ravenna era percorsa fino a Scheggia, dopodiché si deviava nella valle del Sentino e ci si andava a ricollegare alla Salaria gallica in territorio Piceno.  Percorsa per tutta la sua lunghezza, si attraversava il Tronto a Roccafluvione e, sulla Salaria consolare, era facile raggiungere Roma.  Si era creato perciò, per evitare il passaggio attraverso l’Umbria, una specie di corridoio che permetteva i collegamenti tra Ravenna e Roma senza attraversare territori controllati dai longobardi di Spoleto.  Naturalmente l’inimicizia tra romano-bizantini e longobardi si attenuò notevolmente quando i longobardi, ad opera della loro regina Teodolinda, passarono al cristianesimo.
Questo fa anche capire che l’accoglimento dei profughi franchi provenienti dall’Aquitania  aveva anche risvolti politici.  Si voleva ripopolare il Piceno e la Sabina, che erano rimasti territori di nessuno perché ai limiti di tutte e tre le grandi realtà politiche presenti nell’Italia centrale: la longobarda Spoleto, la bizantina Ravenna e Roma pontificia.  Si noti che i Franchi furono dislocati dall’abate di Farfa a piccoli gruppi nella Sabina lungo la Salaria consolare e nel Piceno lungo la Salaria gallica, da cui fu facile ai Franchi discendere lungo le valli del Potenza, del Chienti, del Tenna, dell’Ete e dell’Aso, per cui si ebbe un rapido ripopolamento di queste terre tanto che il territorio tra i Sibillini e l’Adriatico non fu  più chiamato Piceno, bensì “Francia”, perché ormai integralmente popolato da signori Franchi.
Un’ultima espansione franca si ebbe oltre Cancelli di Fabriano, cioè nell’Umbria della longobarda Spoleto, che continuò nei documenti ad essere chiamata Ducato longobardo: in realtà vi si infittirono nuovi insediamenti franchi i quali, spingendosi oltre Spoleto e oltre Acquasparta, raggiungevano l’Umbria meridionale nella zona di Terni, Orte e Amelia.
E’ molto importante notare come il dialetto maceratese, a quei tempi una vera e propria lingua volgare, copriva e copre ancora oggi la totalità dei territori appena nominati: il Piceno naturalmente, la Sabina attraversata dalla Salaria e l’Umbria spoletina, fino a essere presente in tutta l’Umbria meridionale.  Chi è esperto di dialetto maceratese sa che linguisticamente si sente quasi a casa sua non solo in tutto l’attuale Piceno ma anche in Sabina, fino all’abazia di Farfa, alle porte di Roma, ed anche in Umbria, nonostante che le Marche siano da essa separate dall’alta barriera dei monti Sibillini.  Teoricamente anche il toscano, sul territorio attraversato dalla Francigena, può essere considerato come una derivazione linguistica del popolo latino che conviveva in “Francia” coi franchi venuti d’oltralpe. Oltre questi confini ci sono solo una moltitudine di dialetti nell’Italia padana e già il maceratese non si sente a casa sua nell’anconetano, territorio pur vicinissimo. Questo si spiega perché Carlo Magno, per trentatre anni, partendo a maggio da Campomaggio, raggiungeva la Sassonia e in autunno rientrava in “Francia” deportando ogni volta nuclei di tribù sassoni, uomini, donne e bambini, che, crescendo, costituirono, al di là del Musone, la proverbiale serpe allevata in seno, tanto che furono poi i locali imperatori sassoni di Aquisgrana, Ottone primo, Ottone secondo e Ottone terzo, a impadronirsi dell’Impero, e a privare i Franchi di ogni locale potere, provocando forse il rientro in massa di molti feudatari franchi in Gallia, loro patria d’origine, che verso il mille assorbì, detenendo ancora oggi, il nome di Francia.
Come si vede, per i Franchi fu estremamente importante riattivare strade romane che permettessero i collegamenti fra i vari nuclei franchi d’Italia e d’oltralpe. Per questo nacque già con Carlo Martello, capostipite dei Carolingi, un’altra importantissima strada che, ripercorrendo anch’essa i tracciati di strade consolari, partendo dall’Urbs, o Roma - oggi Urbisaglia - attraverso Cancelli, Spoleto e Acquasparta, raggiungeva Orte nella valle del Tevere e proseguiva verso nord valicando i passi della Cisa e del Gran San Bernardo per raggiungere la Gallia e la Renania germanica.  Questa importantissima arteria stradale prese il nome di Francigena perché, fino all’epoca di Pipino, padre di Carlo Magno, attraverso di essa veniva stabilito il collegamento tra i Franche d’oltralpe e quelli d’Italia.  All’epoca di Carlo Magno prese poi importanza anche un’altra strada, la Romea, che partendo sempre dall’Urbs, o Roma picena, raggiungeva la Sassonia oltrepassando il Brennero.

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